Emilio Salgari - La riconquista di Monpracem

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– Per la baja di Gaya, per ora.

– Io non ho affari in quei paesi, mio caro pirataccio.

– Non m’interessa affatto.

– E se mi rifiutassi?

– Vi farei imbarcare colla forza, signor ambasciatore.

– Siete un americano, voi?

– Perché?

– Perché quella brava gente d’oltre Atlantico non ha mai avuto scrupoli.

– Non sono affatto uno yankee, signor mio.

– Agite bensì come quelle brave persone.

– Certo, quando si tratta di salvare sessanta uomini che sono stati affidati a me.

– E che cosa avete fatto ora, canaglia?

– Ben poca cosa – rispose Yanez. – Una cannoniera mi dava fastidio, ed io l’ho affondata. Ero nel mio diritto.

– Il diritto dei pirati!

– Lasciate andare le parole, Sir.

– Che cosa volete che vada a fare dunque al Borneo?

– La vostra patria è sempre stata una grande divoratrice di terre. Lassù vi sono delle terre vergini da conquistare.

Inalberate la bandiera rossa e vedrete gl’indigeni accorrere a frotte a baciarla.

– Voi vi burlate di me.

– Io? No, Sir: non sono mai stato serio come ora.

– E che cosa pretendereste?

– D’imbarcarvi, vi ho detto: siete sordo?

– Sento magnificamente, mia cara canaglia!

– Ah, la prendete su questo tono? Mati! —

Il maestro dello yacht che doveva aver già ricevuto degli ordini, irruppe entro la cabina, accompagnato da quattro robusti malesi, i quali non tardarono a rendere all’impotenza l’irascibile figlio di John Bull.

– Imbarcatelo! – comandò Yanez.

Padar sa già che cosa deve fare di questo brav’uomo, che a Varauni potrebbe procurarmi delle grandi noie che io non desidero affatto. —

L’inglese, malgrado la sua disperata resistenza, fu chiuso e legato dentro un’amaca e portato di peso sul ponte dello yacht.

– Canaglia! – urlava o meglio ruggiva. – La grande Inghilterra mi vendicherà. —

Quella minaccia non aveva prodotto alcun effetto sui malesi e sui dayachi, i quali si sentivano troppo sicuri sotto un capo che si chiamava Yanez.

L’inglese fu calato sul praho e portato in una cabina di fondo.

– Padar! – gridò Yanez. – Sai che cosa devi fare.

Ti aspetto presto a Varauni. Allarga! —

Il piccolo veliero rovesciò le sue vele al vento e si allontanò rapidissimo, mentre lo yacht riprendeva la sua corsa verso la capitale del Sultanato.

5. Un terribile momento

Cominciava ad imbrunire, quando lo yacht entrò nella vasta e pittoresca baia di Varauni, salutando la bandiera del Sultano con un colpo di cannone, subito restituito dalla vecchia crollante batteria.

La piccola nave si era appena ancorata alla boa, quando Mati che osservava attentamente tutto, segnalò la barca dipinta in rosso coi bordi dorati, che quattro giorni prima aveva trasportato Yanez all’aloun-aloun.

– Signore, – disse, precipitandosi nella cabina dove il portoghese stava visitando una cassetta d’acciaio piena di diamanti indiani e di smeraldi e rubini birmani. – Viene…

– Chi?

– Il segretario del Sultano.

– E ti inquieti per questo, amico? Ho qui di che corrompere tutti i favoriti di S. A. Fa bene a venire, perché non gli ho ancora offerto nessun regalo.

– E dopo?

– Dopo? Mio caro, abbiamo una nave a vapore sotto pressione, sempre pronta a prendere il largo. Chi mi darà la caccia? I giongs sgangherati del Sultano? Ne mettesse in linea anche venti, noi passeremmo ugualmente su di loro. E poi a Gaya abbiamo una riserva imponente, capace di bombardare la città ed anche di prenderla d’assalto.

– Non fidatevi del Sultano.

– Uh! Un vero fanciullone! —

Prese una manata di rubini, di diamanti e di smeraldi, se li mise in tasca e richiuse la cassetta che doveva contenere parecchi milioni.

– Andiamo a vedere che cosa desidera quella mezza scimmia, – disse salendo in coperta.

La barca, che era montata da dodici remiganti, era già sotto la scala.

L’antipatico segretario in un baleno fu a bordo, salutando Yanez solamente con un mezzo inchino.

– Che cosa abbiamo dunque di nuovo, amico? – gli chiese bonariamente il portoghese.

Il segretario tirò il fiato, sgranò gli occhi e dopo d’aver fatto una brutta smorfia, disse con un certo sforzo:

– S. A. vi aspetta a cena.

– Accetto subito, perché questa corsa al largo mi ha fatto venire un appetito da pesce-cane. Speriamo che sia di buon umore.

– Lo è sempre, quando ha bevuto.

– Allora ci penso io. Padar!

– Signore!

– Metti in un canestro dodici bottiglie di gin con qualcuna di champagne e portalo nella barca.

– Andate solo?

– Formami una buona scorta di dodici uomini ed io rispondo di tutto. —

Poi, avvicinandosi al segretario e levandosi dalla tasca un magnifico rubino, gli disse:

– Amico, vi prego di gradire questo come ricordo dell’ambasciatore dell’Inghilterra. —

Il segretario, con grande stupore del portoghese, il quale sapeva quanto erano venali i bornesi, invece di allungare la mano, la ritirò.

– Rifiutate? – gli chiese.

– Se non so ancora chi siete voi.

– Come?… Briccone! Non ho presentato le mie credenziali in piena regola al tuo padrone?

– Eppure vi sono molte persone che vi accusano.

– Di essere un furfante?

– Io non lo so, milord.

– Ah, la vedremo rispose Yanez. – Per Giove, per chi mi si prende? Per una scimmia delle foreste bornesi?

Il mio naso non è ancora diventato rosso, né si è screpolato. Su via, prendete: vale almeno duecento fiorini e potrete far felice qualche bella fanciulla del vostro harem. —

Questa volta il segretario fu pronto ad allungare la mano e a chiudere le dita intorno al rubino.

– Avrà degli invitati questa sera il Sultano? – gli chiese Yanez. – A me piace molto la compagnia.

– Temo che ne troverete troppa, dopo la cena.

– Niente di meglio: improvviseremo una festa da ballo e faremo saltare le belle bornesi. Andiamo, signor segretario. —

Si passò nella fascia le due pistole indiane che Padar gli porgeva, raccomandò di tenere la nave sempre sotto vapore ed i pezzi carichi e scese nell’imbarcazione colla sua scorta completamente equipaggiata, come se dovesse entrare subito in campagna.

La calma del portoghese era per altro più apparente che reale, poiché gli era sorto il dubbio che il Sultano lo mettesse dinanzi ai naufraghi della nave a vapore e che gli domandasse anche stretto conto della cannoniera, che più nessuno aveva veduto rientrare nella baia, mentre le detonazioni dei pezzi erano state udite da non poche persone.

Ma confidava nella sua straordinaria audacia e sul suo sangue freddo, per giuocare la terribile partita che si presentava con pessime carte, e colla speranza di vincere ancora.

La scialuppa, spinta dai suoi dodici remi energicamente manovrati, varcò la baia ed approdò dinanzi alla gettata, dove l’attendeva il carro dalla cupola dorata e le colonnine bianche, tirato dagli zebù.

– Seguitemi alla corsa – disse Yanez ai suoi uomini, mentre i piccoli bovi partivano, galoppando abbastanza bene.

I dodici malesi, abituati alle lunghe corse attraverso alle foreste, si erano slanciati dietro il carro, tenendosi ben vicini.

In meno di dieci minuti giunsero dinanzi al bellissimo palazzo del Sultano tutto bianco e leggero, con cupolette e lunghe gallerie.

Mezza compagnia di rajaputi si trovava schierata dinanzi alla porta.

Yanez la passò in rivista; poi preceduto dal segretario salì un grandioso scalone illuminato da un gran numero di lanterne cinesi, le quali lasciavano piovere sotto di loro una luce dolce e tranquilla.

Ad ogni pianerottolo vi erano altre guardie in alta tenuta e completamente armate. Quell’apparato di forze diede un colpo al cuore di Yanez.

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