Emilio Salgari - La rivicità di Yanez
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I due uomini che pareva guidassero il drappello erano il flemmatico olandese e Kiltar.
Il primo aveva accesa una grossa pipa di porcellana, come usano tutti gli uomini del nord dell’Europa, e fumava con una flemma sorprendente; il secondo invece masticava qualche cosa, forse del betel con noce d’areka e calce viva, a giudicare dai lunghi sputi color del sangue che di quando in quando proiettava dinanzi a sé con una specie di sibilo.
Il drappello, dopo d’aver fiancheggiato i bastioni della capitale, sventrati dallo scoppio delle polveriere le quali, malgrado le porte di ferro, non avevano potuto resistere all’uragano di fuoco che distruggeva ogni cosa, si cacciò su un largo sentiero aperto fra le altissime erbe chiamate kâlam.
Dinanzi, le luci dell’accampamento brillavano sempre, mentre il cielo si rischiarava rapidamente.
– Sarà alzato il rajah? – chiese l’olandese.
– Non dorme quasi mai di notte – rispose il bramino.
– Che cosa fa?
– Si ubriaca, tanto per non perdere l’abitudine, insieme coi capi dell’esercito.
– Capi di gran valore, è vero?
– Per me sono dei grandi vuotatori di bottiglie. Di guerra devono intendersene meno dei paria.
– Come credi che mi accoglierà?
– Tu sei un uomo bianco, sahib, e Sindhia ha troppa paura degli uomini che non hanno la pelle abbronzata come noi.
– Purché non mi faccia schiacciare la testa sotto la zampa di qualche elefante!
– Non l’oserà, te lo dico io, sahib.
– Allora sono tranquillo.
– Tu non hai nessuna arma, sahib bianco.
– Lo credi? Ho con me solamente due bottiglie.
– Da offrire al rajah?
– Oh, no!… Da spezzare una volta entrato nel campo, e ti posso assicurare che valgono meglio di tutti i cannoni e di tutte le carabine che possiede il principe.
Il bramino scosse il capo, poi mormorò:
– Ah, questi bianchi, questi bianchi!…
– Voglio darti un consiglio – disse l’olandese.
– Quale, sahib?
– Di fuggire appena io avrò spezzate casualmente le due bottiglie.
– Contengono delle materie esplodenti?
– Peggio! È un mio segreto e non posso rivelartelo per ora, quantunque io abbia in te completa fiducia.
– Ho detto al Maharajah che il mio corpo ed anche la mia anima, se la desidera, sono cose sue.
– Infatti io l’ho udito – rispose l’olandese, rimettendosi la pipa in bocca. – Ba’, vedremo!… Oh!, saprei vendicarmi terribilmente.
Erano giunti all’accampamento il quale si estendeva intorno a delle immense risaie.
Gli indiani, che non usano tende, avevano innalzato una grande quantità di capannucce coperte di foglie di tara e di banani.
Da tutte quelle minuscole abitazioni uscivano, a quattro a cinque per volta paria semi-nudi e assai sporchi, fakiri magri come chiodi, banditi dagli sguardi torvi che nelle fasce portavano un vero arsenale, poi dei rajaputi e molti cornac incaricati di vegliare sugli elefanti presi cosí abilmente a Yanez.
Nel mezzo di tutte quelle capannucce si alzava orgogliosamente una tenda tutta rossa, la sola, in forma d’un immenso cono, sulla cui cima ondeggiava una bandiera azzurra con un leopardo dipinto a forti tinte, e che pareva fosse lí lí per spiccare lo slancio: era lo stemma dei Maharajah dell’Assam.
Vedendo avanzarsi il drappello dei soldati, fecero squillare rumorosamente i gong per dare l’allarme, poi i falò furono rapidamente spenti, ed un centinaio di uomini mosse contro Kiltar, il quale faceva ondeggiare vivamente la bandiera bianca gridando:
– Largo!… Largo al sahib bianco!…
Le schiere che si erano subito ingrossate dietro al primo drappello, avendo riconosciuto il bramino, si erano affrettate ad aprire le loro file.
Wan Horn vuotò la pipa, si pulí gli occhiali montati in oro e assicurati da una leggera catenella del medesimo metallo, poi si mise a fianco del sacerdote, guardando piuttosto insolentemente i banditi dell’ex rajah.
Ormai il sole era sorto, e la vasta tenda di seta rossa si era aperta sul dinanzi.
Quattro rajaputi, che avevano dei giganteschi turbanti e delle barbe nerissime che coprivano loro quasi tutto il viso, vegliavano, due per parte, appoggiati alle carabine le quali avevano i cani alzati.
Il bramino fece segno all’olandese di fermarsi, poi entrò nella tenda salutato rispettosamente dalle sentinelle.
Wan Horn, immaginandosi che la conferenza sarebbe stata un po’ lunga, si sedette su un grosso tronco d’albero atterrato per alimentare i fuochi notturni e ricaricò, colla sua eterna flemma, la pipa borbottando:
– Mi si farà fare un po’ d’anticamera.
Attorno a lui, a una certa distanza, si erano radunati parecchie centinaia di soldati che avevano piú l’aspetto di straccioni che di guerrieri, ma tutti benissimo armati di fucili, di pistole e anche di scimitarre.
– Bell’esercito – borbottò l’olandese, dopo la terza aspirazione che lo avvolse in una nuvola di fumo profumato. – Dove quell’ex rajah ha raccolto questi banditi? Ve ne devono essere molti negli altri accampamenti che ho scorti presso la città distrutta. Vedremo se saranno gente cosí solida da resistere ai miei bacilli.
Aveva fatto una dozzina di aspirazioni, sempre borbottando, quando vide il bramino uscire dalla tenda.
– Sahib, – disse l’indiano avvicinandosi rapidamente – il rajah ti aspetta.
– Di che umore è?
– Stava già bevendo non so quale bottiglia di liquore giallastro. Come suo fratello, è un impenitente ubriacone che tornerà ben presto fra i pazzi.
– Sa che io sono olandese?
– Gliel’ho detto, e pare che si sia ricordato che in Europa esiste una nazione che si chiama Olanda, e che ha ricche colonie a Giava, a Sumatra ed al Borneo.
– Meno male.
Il dottore vuotò la pipa, tornò ad accomodarsi gli occhiali, e seguí il bramino entrando nella spaziosa tenda ormai piena di luce.
Su un ammasso di ricchissimi tappeti e cuscini, ammucchiati abbastanza disordinatamente, stava coricato un indiano dalla pelle appena abbronzata, che poteva avere quarant’anni come sessanta.
Il suo viso era consunto, la sua fronte solcata di rughe profonde, i suoi occhi nerissimi animati da uno strano lampo, quel lampo che si scorge nelle pupille dei pazzi.
Non aveva né barba né baffi e nemmeno capelli.
Vestiva elegantemente con una specie di lungo camice di seta bianca ricamato in oro, e stretto ai fianchi da un’alta fascia di velluto azzurro a lunghe frange d’oro, reggente una corta scimitarra coll’impugnatura d’oro scintillante di pietre preziose.
In piedi aveva scarpe di cuoio rosso colla punta assai rialzata, ed anche quelle con ricami d’oro.
– Altezza, – disse il bramino all’indiano, il quale pareva mezzo inebetito – ecco il parlamentario.
– Ah!… – fece il rajah.
Al suo fianco stava un ragazzo il quale teneva in mano una bottiglia ed un bicchiere ben capace.
– Versami – gli disse. – Ho bisogno di raccogliere le idee.
– O di offuscarle, Altezza? – chiese l’olandese. – Voi bevete troppo.
Il viso di Sindhia prese una espressione selvaggia e fissò coi suoi occhi, quasi fosforescenti, l’olandese.
– Che cosa dite voi? – chiese dopo un po’ di silenzio, facendo segno al ragazzo di porgergli subito la tazza.
– Dico che voi bevete troppo.
– Chi ve lo ha detto?
– Tutti lo sanno, anche a Calcutta.
– Ah!… Davvero? – disse il rajah con voce un po’ ironica. Afferrò il bicchiere colle mani tremanti, e lo vuotò d’un fiato.
– Voi non lo crederete, signore, eppure io ora mi sento meglio e la mia memoria mi si è risvegliata d’un tratto.
– Vi avverto che io sono uno dei piú famosi medici delle colonie olandesi – disse il signor Wan Horn, sedendosi su un cuscino senza attendere l’ordine del rajah.
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