Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I: краткое содержание, описание и аннотация

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Assai diversa da questa mostravasi, quanto al vigore degli animi, la condizione della repubblica di Genova. Nissun popolo si è veduto meno da' suoi maggiori degenerato del Genovese. Fortezza d'animo, prontezza di mente, amore di libertà, attività mirabile, civiltà ancor mista con qualche rozzezza, ma esente da mollezza; un osare con prudenza, un perseverare senza ostinazione, ogni cosa insomma ritragge ancora in lui di quel popolo, che resistè ai Romani, battè i Saracini, pose agli estremi Venezia, distrusse Pisa, conquistò Sardegna, produsse Colombo e Doria, cacciò dalla sua città capitale i soldati d'Austria; e se i destini in questi ultimi tempi non fossero stati tanto contrarj alla misera Italia, forse i Liguri avrebbero lasciato al mondo qualche bel saggio di valore e di virtù. Ma parlossi d'indipendenza con la oppressione, e di libertà con la servitù, e gli animi distratti fra dolci parole e tristi fatti, non poterono nè accendersi al bene, nè vendicarsi del male. Era in Venezia un acquetarsi abituale alla sovranità dei patrizj, perchè era non solamente non tirannica, ma dolce, e perchè era da principio presa, e non data. Era in Genova un vegliare continuo, una gelosìa senza posa nell'universale verso la sovranità dei nobili, non perchè tirannica fosse, ma perchè era stata non presa da chi comandava, ma data da chi obbediva. La lunga quiete aveva fatto posar gli animi in Venezia: le sette, le fazioni, le parti ora rompendo in manifesta guerra civile, ora sottomettendo la patria ai forestieri, avevano mantenuto in Genova gli animi forti, e le menti attente. Era nel paese veneto gran ricchezza con ampio territorio e fertile; era nel Genovesato gran ricchezza con angusto territorio e sterile; perciò là si poteva conservar l'acquistato posando, qua bisognava conservarlo operando. Era in Venezia chiuso a' plebei il libro d'oro; era in Genova aperto, possente stimolo a chi aveva avuto più amica la natura che la fortuna. Sicchè non dee far maraviglia, se risplendeva Venezia più per delicatezza di costumi, che per forza, e se pel contrario era più conspicua in Genova la forza che la delicatezza. Quanto alle opinioni, quelle relative allo stato poco sapevano di cambiamento, quelle relative all'ecclesiastiche discipline, assai. Quindi Porto-Reale era in favore, e molto largamente si pensava sull'autorità del papa. Tal era Genova non cambiata dai secoli, e le antiche querele sulla natura de' suoi abitatori al molto amor patrio suo sempre molesto ai forestieri, piuttosto che a verità, debbonsi attribuire.

Se Venezia dimostrava quanto possa per la felicità dei popoli e per la stabilità degli stati l'aristocrazia temperata dal costume, se Genova c'insegnava quanto possa pel medesimo fine la maniera stessa di governo temperata dal costume e dalla gelosia del popolo, dimostravalo Lucca con l'uno e con l'altro, e di più col freno di una sottile investigazione sul procedere tanto dei nobili, quanto dei popolari. Era in Lucca quest'ordine, che chiamavano discolato , e rappresentava l'antico ostracismo d'Atene, e la censura di Roma, che quando alcuno, o nobile o popolano si fosse, trascorreva i limiti della modestia civile, o dei costumi buoni, tosto tenevasi Discolato, scrivendo ciascun senatore il suo nome in sur una polizza; e se venticinque polizze il dannavano in tre Discolati successivi, ei s'intendeva mandato a confine, od in esilio. Tenevasi il Discolato ogni due mesi; il che era gran freno agli uomini ambiziosi e scorretti. Pure siccome sempre il male è vicino al bene, quella continua e minuta inquisizione, col timore che ne nasceva, rendevano di soverchio gli uomini sospettosi e guardinghi; perfino l'onesta piacevolezza era sbandita dal conversare Lucchese, ed una terra, oltre ogni credere dolce e gioconda, era abitata da gente grave e contegnosa.

Nè minor gelosia era verso i giudici; quindi si chiamavano dall'estero: poi, deposto il magistrato, si sottomettevano a sindacato, o vogliam dire ad esame: seduti in luogo pubblico, poteva ognuno accusargli di gravame; commessarj espressi tenevano registro, e facevano rapporto al senato, che giudicando assolveva o condannava. Così erano in Lucca giudizj integerrimi, primo e principal fondamento alla contentezza dei popoli.

Ma se vi si dava ad ognuno il suo, vi si largiva il necessario al bisognoso; perchè a chi voleva aprir traffichi, o era stato danneggiato dalle stagioni, si fornivano, o danari dall'erario, o generi dai magazzini del comune. Così mite, provvido, e libero era il reggimento di Lucca. Così ancora facilmente si vede, che nei paesi d'Italia, che non erano stati dati in preda dagl'imperadori a principi assoluti, od a signori arbitrarj, erano state ordinate la giustizia e la libertà, non impronte e superbe favellatrici, come in altri paesi, ma fondate su buoni statuti, sull'assenza d'eserciti esorbitanti, sulla modestia di chi reggeva, sulla natura sottile ad un tempo, ed assennata degl'Italiani. Che poi questi ordini fossero perfetti per fondare una compita libertà, nè io, nè altri, credo, che s'ardirà dire. Ma dove sia questo genere di perfezione, per me nol so; poichè neanco credo che sia dove le soldatesche sterminate possono conquistare, e recare a servaggio non che la patria, una, ed anche più parti del mondo. Che se poi solo ed unicamente si volesse giudicare della bontà dei governi argomentando dall'infrequenza dei delitti, certamente si affermerebbe i governi di Venezia, di Genova, di Lucca, e di Toscana essere i migliori. Va con questi, se però non è superiore per bontà, quello della repubblica di San Marino. Vive da dodici secoli la repubblica di questo nome, appena nota al mondo per fama. Quivi virtù senza fasto, quiete senza tirannide, felicità senz'invidia: quivi nobiltà solo per chiarezza di natali, non per dritti oltraggiosi, nè per privilegj, nè per desiderio di dominazione: quivi popolo occupato ed industrioso, e come fra nobili temperati, così nè irrequieto, nè tirannico. Fortunate sorti, per cui, tolta l'ambizione dalle due parti, solo rimasero gli affetti conservatori della società. Rovinavano per lunghi anni intorno a San Marino i regni, rovinavano le repubbliche, si straziavano gli uomini per civili e per esterne guerre: sul Titano monte perseverarono i Sammariniani in tranquillo stato, ed amici a tutti: dall'alto, e dal sereno miravano le tempeste. Volle l'ambizione moderna introdursi in quei placidi recessi, ma fu l'opera indarno, come fia da noi a suo luogo raccontato: l'inveterato e dolce aere resistette al pestilenziale soffio. Un consiglio di sessanta nominato primitivamente dai capi di tutte le famiglie adunati in generale congresso, o vogliam dire a parlamento, e che chiamavano aringo, poi rinnovellato da se stesso a misura delle vacanze, e due consoli semestrali col titolo di capitani del comune reggono lo stato. Hanno i capitani la facoltà esecutiva: avevano anche anticamente, a norma degli antichi consoli di Roma, parte della giudiziale, ma questa poi cesse a uomini chiamati dall'estero dal consiglio sotto nome di podestà: rimase ai capitani l'ufficio di paciali. Sono i capitani, e così ancora i podestà, per gli atti del loro ufficio soggetti al sindacato, che è il modo della legge delle obbligazioni, o come dicono i Francesi, della risponsabilità, trovato dagl'Italiani per la guarentigia dei dritti. L'equalità civile consola San Marino, i costumi il conservano, la povertà sicuro scudo contro i forestieri. Nulla ci desidera negli altri, nulla gli altri desiderano in lui, perchè i buoni hanno a schifo i vizj, la quiete non piace ai turbolenti, nè la libertà ai corrotti.

Regnava in Modena il duca Ercole Rinaldo di Este, ultimo rampollo di una casa, da cui l'Italia riconosce tanti benefizj di gentilezza, di dottrina e di lettere, come se fosse ordinato dai cieli, che non solo ogni reggimento Italiano, ma ancora ogni sangue sovrano, eccetto quel di Piemonte, dovessero andare spenti nei calamitosi tempi che vedemmo. Era il duca Ercole principe degno dei suoi maggiori, se non che forse la sua strettezza nello spendere era tale, che sapeva di miseria. Pure dubitar si potrebbe, se tale qualità in lui si debba a vizio, od a virtù attribuire; perchè se dagli eventi giudicar si dovesse, e dalla natura sua, ch'era previdentissima, sarebbe degno anzi di lode, che di biasimo. Certo, era in lui maravigliosa la previdenza, e non so se i posteri mi crederanno, perchè ciò solo a rinomati filosofi fu attribuito, quando dirò, che il duca Ercole con chiaro ed evidente discorso predisse, parecchi anni prima dell'ottantanove, il sovvertimento di Francia, e la rovina d'Europa. Aggiunse con voce ugualmente profetica, che la Francia perderebbe la sua preponderanza, che tutte le potenze si sarebbero collegate contro di lei, e che nissuna l'avrebbe aiutata. Principe buono, ed avverso agli ordini feudali, affermava ch'essi erano più funesto flagello all'umana generazione, che la guerra e la peste, nè mai comportò ai nobili le insolenze. Principe religioso, seppe tener in freno il clero e Roma, perchè e voleva intiero il dominio de' suoi, e si ricordava del tratto di Ferrara. Fiorirono maravigliosamente a tempo suo le lettere in quella parte d'Italia: finì la casa d'Este simile a lei, nell'antico costume perseverando.

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