Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I
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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo I: краткое содержание, описание и аннотация
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Così cresceva Roma sotto Pio in bellezza ed in isplendore ogni giorno: così visitata dai più potenti principi d'Europa lasciava in loro riverenza, e maraviglia, così la magnificenza che cresceva, suppliva alla fede che mancava; così i popoli mossi da sì sontuosi apparati non rimettevano di quella venerazione, che avevano sempre avuto verso la sedia apostolica. Quanto alle nuove dottrine filosofiche, che parlavano tanta umanità, poche radici avevano messo in Roma: non che i gentili pensieri non vi fossero graditi, ma perchè gli autori loro mescolando, come facevano, tempi dissomigliantissimi, ed attribuendo a certi effetti cagioni non vere, troppo in se stessi si compiacquero di condannar le romane cose. Tal era Roma, tanto sempre a se medesima conforme, che mancate l'armi, comandò con la fede, mancata la fede, comandò con le pompe, ritraendo sempre in ogni fortuna di quella grandezza, che per ispecial privilegio del cielo pare in lei congenita e naturale.
Mentre così in varie parti d'Italia più o meno si cancellavano per benefizio dei principi, o per ammaestramento dei buoni scrittori, le vestigia che i tempi barbari avevano lasciato nelle instituzioni dei popoli, e che evidentemente vi si procedeva verso un vivere sociale più generoso e più mite, poco o nissun cambiamento si osservava in altre parti della medesima provincia. La monarchia piemontese era la più ferma di tutte le monarchie, poichè in lei non si videro mai, come in tutte le altre, o rovine nella casa regnante, o rivoluzioni di popoli. Del quale privilegio, se si vorrà ben dentro considerare, apparirà, prima e principal cagione essere la potestà assoluta del principe, giunta con un uso moderato della medesima. Poi mancavano le occasioni dell'ambizione dei potenti; perciocchè trovandosi il Piemonte posto tra la Francia e l'Austria, altro non avrebbe partorito l'ambizione di un potente, anche fortunata, che render se ed il paese suddito o dell'una o dell'altra; nè mai chi avesse voluto imitare un duca di Braganza, avrebbe potuto venir a capo della sua impresa. S'aggiunse, che i principi di Savoia governarono sempre gli eserciti loro da loro medesimi, nè potevano sorgere capitani di gran nome, che potessero, non che distruggere, emulare la potenza dei principi.
Da questo, e dagli eserciti molto grossi, nacque la maravigliosa stabilità della monarchia piemontese. Ne procedette, oltre a ciò, in quello stato una opinione generale stabile, che da generazione in generazione propagandosi, rendè questa monarchia somigliante alle repubbliche, nelle quali, se cangiano gli uomini, non cangiano le massime, nè le opinioni. Adunque gli ordini antichi si erano conservati intieri; le opinioni nuove poco vi allignavano.
Ciò non ostante alcuni segni, sebben deboli, di cambiamento, si ravvisavano negli stati del re di Sardegna, massime circa la ecclesiastica disciplina. Imperciocchè tolte con providissimo consiglio dal re Vittorio Amedeo II le pubbliche scuole ai gesuiti, e fornita l'università degli studi di ottimi professori, incominciarono le dottrine dell'antichità cristiana a diffondersi. I tre bibliotecari dell'università, Pasini, Berta, e Pavesio, uomini di molto sapere e pietà, promossero lo studio delle opere scritte dai difensori di quelle dottrine: Vaselli ne arricchì la libreria del re.
Regnava Vittorio Amedeo, terzo di questo nome, principe di animo generoso, di vivo ingegno, e di non ordinaria perizia nelle faccende di stato. Contaminava la sua buona natura un amore eccessivo della gloria militare: quindi ordinò e mantenne in piè un esercito grosso fuor di misura: il che rovinò le finanze, che tanto fiorivano ai tempi di Carlo Emanuele suo padre; sparse largamente nella nazione la voglia delle battaglie, e diè favor eccessivo e potenza ai nobili, soli ammessi a capitanar le soldatesche. Ognuno voleva essere, ognuno imitar Federigo re di Prussia. Certamente se immortali lodi si debbono a Federigo per aver difeso il suo reame contra tutta l'Europa, gran danno ancora le fece per avervi introdotto coll'esemplo suo un eccessivo umor soldatesco, ed aver messo su eserciti smisurati. Gli altri potentati o per fantastica imitazione, o per dura necessità furono costretti a far lo stesso; poi venne la rivoluzione di Francia, che dilatò questa peste ancor di vantaggio, poi sorse Buonaparte, che la portò agli estremi, ed altro non mancherebbe alla misera Europa per aver la compita barbarie, se non che ella facesse marciare, a guisa degli antichi Galli e Goti, coi combattenti anche i vecchi, le donne, ed i fanciulli. Certo nè libertà alcuna, nè ordine buono di finanza, nè civiltà durevole potrà mai essere in Europa, se i principi non si risolvono a por giù questi loro eserciti sterminati. Questi sono gli obblighi, che le generazioni hanno a Federigo.
Ma tornando a Vittorio, tanto era in questa bisogna infatuato, che soleva dire, ch'ei faceva più stima di un tamburino, che d'un letterato, benchè poi riuscisse miglior che di parole; perciocchè i letterati accarezzava e premiava, ed usava anche con loro molto famigliarmente. Ma le armi prevalevano; quindi non solamente fu dissipato il tesoro lasciato da Carlo, ma i debiti dello stato, non ostante che le imposizioni s'aggravassero, tanto s'ammontarono, che sommavano nel 1789 a meglio di cento milioni di lire piemontesi, che sono più di cento venti milioni di franchi. Le cariche civili ed ecclesiastiche conferivansi solo ai nobili, ed agli abbati di corte. Ad una generazione di magistrati integerrimi e capaci, e di vescovi santi e dotti, successero qualche volta magistrati e vescovi poco atti per dottrina, e fors'anche meno per costume a reggere gli uffizi loro.
Pure fiorivano le scienze; fiorivano anche, ma non tanto, le lettere. Quanto alle contese circa l'ecclesiastica disciplina fra il romano pontefice, ed i principi di casa austriaca, il re Vittorio, contuttochè pensasse da illuminato cristiano in materia religiosa, aveva, per amor di quiete, ordinato, che mai non si parlasse o scrivesse nè pro nè contro la bolla Unigenitus , nè mai si trattasse dei quattro capitoli della chiesa gallicana; che anzi, siccome questi capitoli erano apertamente insegnati, e costantemente difesi nell'università di Pavia dopo le riforme fattevi da Giuseppe Secondo, aveva, a petizione del cardinale Gerdil, uomo dotto, ma romano in eccesso, proibito, che i sudditi andassero a studiare in quella università. Ma tali opinioni più pullulavano, quanto più si volevano frenare.
Da quanto abbiam finora discorso si può raccogliere, che il paese d'Italia, il quale ne sta ai passi, e doveva il primo esser percosso dalla tempesta, trovavasi, sotto sembianza forte, in non poca debolezza; poichè, se aveva esercito grosso e pieno di buoni soldati, che aveva certamente, governavasi questo esercito da ufficiali più notabili per nobiltà, che per esperienza di guerra; l'erario penuriava per debiti e per dispendio esorbitante; la superiorità dei nobili odiosa a tutti. Perciò vi covava qualche mal umore, crescendo dall'una parte la superbia per sospetto, dall'altra l'ambizione per dispetto.
Se la monarchìa Piemontese era la più ferma delle monarchìe, la repubblica di Venezia era la più ferma delle repubbliche. Coloro i quali credono, essere le repubbliche varie e turbolente, nè poter la quiete sussistere che nelle monarchìe, potran vedere nella Veneta una repubblica più quieta di quante monarchìe siano state al mondo, eccetto solo quella del Piemonte. Passò gran corso di secoli senza turbazioni; fu percossa da potentissime nazioni, da Turchi, da Germani, da Francesi; trovossi fra guerre atroci, fra conquiste di popoli barbari, fra rivoluzioni orribili di genti; Roma stessa fulminava contro di lei. Pure conservossi, non solo salva in mezzo a tante tempeste, ma nemmeno ebbe bisogno di alterar gli ordini antichi. Tanto perfetti erano i medesimi, e tanto s'erano radicati per antichità! Pare a me, che più sapiente governo di quel di Venezia non sia stato mai, o che si risguardi la conservazione propria, o che si miri alla felicità di chi obbediva. Per questo non vi sorsero mai parti pericolose; per questo certe nuove opinioni non vi si temevano, perchè non vi si amavano, e forse ancora non vi si amavano, perchè non vi si temevano. Solo da biasimarsi grandemente era quel tribunale degl'inquisitori di stato per la segretezza, l'arbitrio, e la crudeltà dei giudizi: pure era volto piuttosto a frenare l'ambizione dei patrizi, che a tiranneggiare i popoli. Nè sola Venezia ebbe inquisitori di tal sorte, perchè i governi che non gli hanno per legge stabile, se gli procurano per abuso; e non so se muovano più il riso o lo sdegno certuni, che tanto romore hanno levato contro il tribunale suddetto, e che anche presero pretesto da lui di distruggere quell'antica e santa repubblica. Del resto, la providenza di lei era tale, che e l'umanità vi trovava luogo, e le gentili discipline vi si proteggevano. Ma la lunga pace vi aveva ammollito gli animi, e se vi rimanevano ordini buoni, mancavano uomini forti per sostenergli. Diminuita la potenza Turchesca, e composte a quiete le cose d'Italia, perchè accordate, rispetto al ducato di Milano, ed al regno di Napoli, tra Francia, Austria e Spagna, posò intieramente le armi la repubblica, e credette colla sola sapienza civile potersi preservar salva nei pericoli, che radi ancora si rappresentavano. Ma vennero certi tempi strani, in cui la sapienza civile non poteva più bastare senza la forza, troppo rotti e troppo enormi dovevano essere i moti: la sapienza civile stessa era venuta in derisione. Così Venezia verso l'ottantanove stimata da tutti, temuta da nissuno, se era capace di risoluzioni prudenti, non era di risoluzioni gagliarde; l'edifizio politico vi stava senza puntello: una prima scossa il doveva far rovinare.
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