Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II: краткое содержание, описание и аннотация

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Come prima Buonaparte e Saliceti posero piede nella imperial Milano, si presero, malgrado dell'esortazioni contrarie di parecchi generali, le robe più preziose che si trovavano riposte nel monte, e le avviarono alla volta di Genova, avvisando il direttorio, che là erano condotte acciò ne disponesse a grado suo. Di ciò si sparse tosto la fama, magnificandosi con dire, che non si fosse portato più rispetto alle proprietà dei poveri, che a quelle dei ricchi; il che in parte era anche vero. Le quali cose giunte all'insolenza militare, allo strazio che si faceva delle campagne, alle improntitudini dei patriotti, dei quali chi predicava una cosa che il popolo non intendeva, e chi dava materia a credere con l'esempio che la libertà fosse il mal costume, partorirono una indegnazione tale, che dall'un canto prestandosi fede a nuove incredibili, dall'altro non vedendosi o non stimandosi il pericolo, si accese la volontà di far un moto contro i Francesi. Nè fu la città stessa di Milano esente da questa turbazione; perciocchè facendo i repubblicani non so quale allegrezza intorno all'albero della libertà, incitati i popoli a sdegno, correvano a far loro qualche mal tratto, e lo avrebbero anche fatto, se non sopraggiungeva Despinoy con una banda di cavalli, il quale frenando l'impeto loro, gli ebbe tostamente posti a sbaraglio. Ma le cose non passarono sì di queto nei contorni di Milano, massimamente verso Porta Ticinese; perchè viaggiando e Francesi e patriotti Italiani, o soli o con poca compagnìa per quelle campagne, e non essendo pronta, come in Milano, la soldatesca a preservargli, furono da turbe contadine assaltati ed uccisi. Queste uccisioni presagivano uccisioni ancor maggiori, ed accidenti tristissimi. Ma il nembo più grave si mostrava nelle campagne più basse verso il Po ed il Ticino. In Binasco principalmente l'ardore contro i Francesi, e contro i giacobini, come gli chiamavano, era giunto agli estremi: e credendo i Binaschesi, con tutti coloro che dai vicini luoghi erano concorsi in quella terra posta sulla strada maestra a mezzo cammino fra Milano e Pavia, che ogni più crudele fatto fosse lecito contro chi spogliava i monti di pietà, e secondo l'opinione loro conculcava la religione, ammazzavano quanti Francesi o Italiani partigiani loro venivano alle mani. Essendo l'accidente improvviso, molti, anzi una squadra non piccola di Francesi, furono barbaramente trucidati da quella gente, in cui più poteva un intemperante furore, che un desiderio giusto di difendere la patria contro i forestieri, e contro chi gli favoriva.

A questo moto dei Binaschesi, moltiplicando sempre più la fama dello avvicinarsi dei Tedeschi, che i capi ad arte spargevano, si riscossero le popolazioni del Pavese, e fecero impeto contro la capitale della provincia, essendo ciascuno armato di fucili vecchi, di pistole, di sciabole, di scuri, di bastoni, o di qualunque altra arma che il caso, od il furore avesse posto loro innanzi. Chi poi non accorreva per la speranza dei soccorsi Tedeschi, che non pochi sapevano esser vana, il facevano per la voce che si era levata fra la gente tumultuaria, che i Francesi si avvicinassero per mettere a sacco Pavia. Già i Pavesi medesimi, irritati ad un piantamento di un albero della libertà, che dagli amatori del nome Francese si era fatto sulla piazza, con atterrare anche nel fatto medesimo una statua equestre di bronzo, che si credeva antica e di un imperator Romano, si erano sollevati la mattina dei ventitre maggio, e correvano la città armati e furibondi. Era la pressa grandissima sulla piazza. Fra le grida, lo schiamazzo e le risa della sfrenata moltitudine, i fanciulli intorno all'albero affollatisi, facevano pruova d'atterrarlo. Crescevano ad ogni ora, ad ogni momento le turbe sollevate: suonavano precipitosamente in Pavia le campane a martello, rispondevano con grandissimo terrore di tutti quelle della campagna. Nascondevansi i patriotti nelle parti più segrete delle case, perchè il popolo gli chiamava a morte: pure più temperato in fatti che in parole, i presi solamente imprigionava. Gli uomini quieti serravano a furia le porte, ed attendevano trepidamente a quello che in un caso tanto pericoloso avesse a portar la fortuna per salute, o per esterminio. I soldati di Francia segregati erano presi: i rimanenti, non erano più di quattrocento fanti, male in arnese, la maggior parte malati o malaticci, a grave stento si ricoveravano nel castello, dove per mancanza di vitto era certamente impossibile che si potessero difendere lungo tempo. Arrivavano in questo punto i contadini, e congiuntisi coi cittadini aggiungevano furore a furore. Alcuni fra i più ricchi, o che temessero per se, perchè sapevano che il popolo infuriato dà ugualmente contro gli amici e contro i nemici, e più volentieri contro chi ha ricchezze che contro chi non ne ha, o che volessero ajutare quel moto, mandavano sulla piazza botti di vino, pane e carni, ed altri mangiari in quantità. In mezzo a tanto tumulto i buoni non erano uditi, i tristi trionfavano: i villani ignoranti, forsennati, e non capaci di pesar con giusta lance le cose, non vedendo comparire da parte alcuna soccorsi in favore degli avversarj, davansi in preda all'allegrezza, e concependo speranze smisurate, già facevano sicura nelle menti loro, non solo la liberazione di Milano, ma ancora quella della Lombardìa, e di tutta l'Italia. Arrivava a questi giorni in Pavia il generale Francese Haquin, il quale non sapendo di quel moto, se ne viaggiava a sicurtà verso l'alloggiamento principale di Buonaparte; nè così tosto ebbe posto il piede dentro le mura, che minacciato nella persona, fu condotto per forza al palazzo del comune, dove già era una banda grossa di soldati Francesi, che disarmati ed incerti della vita o della morte se ne stavano del tutto in balìa di quella gente furibonda. Fu Haquin nascosto dai municipali nella parte più rimota del palazzo, e facevano ogni sforzo per sedare quel cieco impeto, che fremeva loro intorno. Ma ogni parola era vana, perchè il furore aveva cacciato la ragione. Finalmente il popolo sfrenato entrava nel palazzo per forza, e trovato Haquin lo voleva ammazzare; ma i municipali, facendogli scudo dei corpi loro, il preservavano. Nondimeno, ferito da bajonetta in mezzo alle spalle, il traevano per le contrade fra una calca immensa, e chi si avventava, come bestia feroce, contro di lui con orribili minacce, e chi con gli archibusi inarcati il voleva uccidere. Pure prevalse contro tanta furia la virtù dei municipali, che con memorabile esempio, e degno di essere raccontato nelle storie come caso meritevole di grandissima commendazione, amarono meglio esporsi al morir essi, che sofferire che avanti al cospetto loro il generale Francese morisse. Mentre alcuni si adoperavano per la salute di Haquin, altri s'ingegnavano di salvar la vita dei Francesi presi; nè riuscì vano il benigno intento loro. Così non pochi Francesi, riscossi da un gravissimo pericolo, restarono obbligati della vita alla umanità di magistrati Italiani, che privi di armi altro mezzo non avevano per frenare un popolo fuor di se, che le esortazioni, e l'autorità del nome loro. Bene fece poi Haquin ufficio di gratitudine, a Buonaparte, che ritornata Pavia a sua divozione, gli voleva far ammazzare come autori della ribellione, raccomandandogli, e con le più instanti parole pregandolo, perdonasse a uomini già vecchi, a uomini più abili a pregare il popolo concitato, che a concitar il quieto, a uomini non usi a casi tanto strani, e che per una generosità molto insigne, e con pericolo proprio, erano cagione ch'egli e più di cencinquanta soldati Francesi superstiti pregare il potessero di dar la vita a coloro, ai quali erano della vita obbligati. Gran conforto è stato il nostro del poter raccontare l'atto pietoso di questo buono e valoroso Francese in mezzo a tante ruine, a tante stragi, a tante devastazioni, ed a tanti vicendevoli rimprocci, sempre condannabili, perchè sempre esagerati, della perfidia Italiana, e della immanità Francese.

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