Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II: краткое содержание, описание и аннотация

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Intanto, perchè si contaminasse anche lo splendore che veniva all'Italia dalla perfezione delle belle arti, che in lei avevano posto la principal sede, e perchè nissuna condizione di barbarie mancasse a quelle dolci parole di umanità e di libertà, che dai repubblicani di quei tempi si andavano fino a sazietà spargendo, ordinava il direttorio, a petizione di Buonaparte, che si comandasse nei patti d'accordo ai principi vinti, dessero in poter dei vincitori, perchè nel museo di Parigi fossero condotti, quadri, statue, testi a penna, ed altri capi dell'esimie arti, usciti di mano ai più famosi artisti del mondo, affermando, esser venuto il tempo, in cui la sede loro doveva passare da Italia a Francia, e servire d'ornamento alla libertà. Brutta certamente ed odiosa opera fu questa dello avere spogliato l'Italia di tanti preziosi ornamenti; che se il rapire l'oro, l'argento e le sostanze dei campi era uso di guerra, non dirò comportabile, ma utile a nutrire i conquistatori, l'aggiungere alla preda statue e quadri, non poteva essere se non atto di superbia eccessiva, e disegno di vieppiù avvilire i vinti. Rispettarono i Francesi ai tempi andati nelle guerre loro in Italia questi frutti eccellenti dell'umano ingegno: Francesco primo re accarezzava con munificenza veramente reale gli operai, non rapiva le opere. Gli rispettarono nei tempi andati, e gli rispettarono nei moderni i Tedeschi. I repubblicani che allora reggevano la Francia, e che non avevano altro in bocca che parole di umanità, di civiltà, di rispetto verso le proprietà, d'amicizia verso i popoli, fecero quello, che uomini meno parlatori e meno ostentatori di dolci discorsi non avevano fatto. Ma lo spoglio piaceva loro, ad alcuni per l'amore della gloria, ad altri perchè potessero essere sotto gli occhi modelli tanto perfetti di natura abbellita dall'arte; imperciocchè in quei tempi erano sortiti in Francia, massimamente in pittura, artisti di gran valore, i quali ed ammiravano e sapevano imitare lodevolmente gli esempj Italiani: con questo ancora Buonaparte, pe' suoi fini, lusingava la Francia.

In Italia poi i repubblicani, non i buoni, ma i malvagi, indicavano le opere preziose da rapirsi, i più dolci andavansi confortando con la speranza che l'Italia, siccome quella che ancora era feconda, ne avrebbe prodotto delle altre ugualmente preziose: i più severi poi, trasportando nelle moderne repubbliche l'austerità delle antiche, se ne rallegravano predicando, che la libertà non aveva bisogno di queste preziosità, e che pane e ferro dovevano bastare a chi repubblicano fosse. Così questi buoni utopisti condotti da una inremediabile illusione, in mezzo agli ori e le gemme, di cui già risplendevano i capi repubblicani di Francia, ed al gran lusso in cui vivevano, andavano continuamente sognando Sparta, e conservandosi austeri ed inflessibili, facevano fede di quanto possa in animi forti e buoni una fissazione, che abbia in se l'immagine del bene.

Ma il direttorio, a suggestione sempre di Buouaparte, che sapeva quel che si faceva, voleva, che se le opere più insigni delle arti servivano d'ornamento ai trionfi della repubblica, gl'ingegni celebri gli lodassero, avvisandosi che non sarebbe accagionato di barbarie, se coloro che da lei per costume, per ingegno e per sapere erano i più lontani, si facessero lodatori delle imprese dei repubblicani, a danno ed a spoglio dell'Italia. Voleva conseguentemente, ed imponeva al suo generale, che ricercasse, e con ogni modo di migliore dimostrazione accarezzasse gli scienziati, ed i letterati d'Italia. Indicava nominatamente l'astronomo Oriani, uomo certamente non degno per bontà e per dottrina di essere accarezzato da un governo e da un capitano, che spogliavano la sua patria. Recava il generale ad effetto l'intento del direttorio, parte per vanagloria, parte per astuzia, come mezzo e scala alle future ambizioni. Degli accarezzati alcuni adulavano parlando, altri sprezzavano tacendo, chi mostrò più forza fu l'eunuco Marchesi, che non volle cantare.

Egli è tempo oramai di esporre come i raccontati comandamenti, che finora erano solamente intenzioni, siano stati ridotti in atto. Non così tosto ebbe Buonaparte passato il Po a Piacenza, che sorse una trepidazione nella corte di Parma, tanto maggiore quanto il duca aveva rifiutato l'accordo con Francia, che il ministro di Spagna in Torino gli era venuto offerendo con qualche intesa del generalissimo, come prima i Francesi erano comparsi nella pianura del Piemonte. Non solamente una parte del ducato era venuta sotto la divozione dei repubblicani, ma ancora il restante, non avendo difesa, era vicino, e solo che il volessero, a venire in poter loro. Così il duca si trovava del tutto a discrezione dei repubblicani, nè sapeva a quali patti questa gente vittoriosa consentirebbe ad accettarlo in amicizia. Nè stava senza timore, che per opera dei Gallizzanti seguisse qualche turbazione, non già ch'essi fossero o numerosi o potenti, ma il terrore rappresentava alle menti commosse questo pericolo più grave assai, che realmente non era. In tanta e sì improvvisa ruina prese il duca quel partito che solo gli restava aperto, del tentare di assicurar gli stati con un accordo, che quantunque grave e duro dovesse riuscire, sarebbe ciò non ostante men grave, che la perdita di tutto il dominio. Tentò il ministro di Spagna di mitigare l'animo del vincitore; ma egli, che era assai meno sdegnato che avido, non voleva udire le proposte che gli si facevano, e non ammetteva che il duca avesse avuto luogo nel trattato di Spagna. Perciò domandava superbamente l'accordo, che ponesse fine alla guerra, e con l'accordo denari, vettovaglie, e tavole dipinte di estremo valore. Adunque come si suol fare nei casi estremi da coloro che non sono più padroni di loro medesimi, fece il duca mandato amplissimo ai marchesi Pallavicini e della Rosa di trattare, accettando tutte le domande, quantunque immoderate, che si facessero dal vincitore.

In primo luogo fu consentita una tregua con mediazione del ministro di Spagna il dì nove maggio in Piacenza. Non aveva il duca nè fucili, nè cannoni, nè altre armi, nè fortezze da dare, ma si obbligava a pagar in pochi giorni sei milioni di lire Parmigiane, che sono a un di presso un milione e mezzo di franchi, e di più a fornire quantità esorbitanti di viveri e di vestimenta pei soldati. Si obbligava oltre a ciò ad allestire due ospedali in Piacenza, provveduti di tutto punto, ad uso dei repubblicani. Consegnerebbe finalmente venti quadri dei più preziosi, fra i quali il San Girolamo del Coreggio. Questi furono i patti che per la intercessione di Spagna ottenne il duca di Parma, i quali di quale natura siano, ognuno per se potrà giudicare. Nientedimeno trovo scritto, che il cavaliere Azara, ministro di Spagna a Roma, opinava che e' fossero molto moderati. Mandava intanto Buonaparte Cervoni a Parma, perchè ricevesse i denari ed i quadri, e vigilasse onde le condizioni della tregua si eseguissero puntualmente. Stretto il duca da tanta necessità mandava le ducali argenterìe alla zecca, perchè vi si coniassero, ed il vescovo le sue. Così usato ogni estremo rimedio, e raggranellato denaro da ogni parte, satisfaceva Ferdinando alle condizioni della tregua. Intanto i fuorusciti Parmigiani e Piacentini, ritiratisi in Milano, laceravano il duca con incessanti scritture, dal che riceveva grandissima molestia. Rappresentavansi spesso questi fuorusciti al generalissimo nelle sue stanze di Milano, ed ei gli accoglieva benignamente, e profferiva loro favori ed impieghi. Di questi alcuni accettavano, ed adulavano; altri repubblicanamente rifiutavano, affermando non volere altro che la libertà della patria loro: questi Buonaparte aveva per pazzi.

Al fracasso dell'armi repubblicane tanto vicine risentitosi il duca di Modena, se ne fuggiva a Venezia, portando con se parte de' suoi tesori; il che concitò a grande sdegno i capi della repubblica in Italia, come se il duca fosse obbligato a lasciar le sue ricchezze in Modena per servizio loro. Creò partendo un consiglio di reggenza, che disposto per la necessità del tempo a ricevere qualunque condizione avesse voluta il vincitore, mandava il conte di San Romano a richiedere di pace Buonaparte. Rispose, concedere tregua al duca con patto, quest'erano le instigazioni del canuto Lallemand, che facesse traboccare fra otto dì nella cassa militare sei milioni di lire tornesi, e somministrasse, oltre a ciò, viveri, carriaggi, bestie da soma e da tiro pel valsente di altri due milioni: di più fra quarantott'ore rispondessero del sì, o del no. Fu pertanto conclusa la tregua, in cui si ottennero dal ducale governo la diminuzione di un milione nei generi da somministrarsi, e dieci giorni pel pagamento de' sei milioni. Offerivano quindici quadri dei più famosi maestri. I repubblicani diedero promessa di pagare a contanti quanto abbisognasse loro passando per gli stati del duca.

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