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Carlo Botta: Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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Carlo Botta Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo II

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A questo modo fu trattato il duca di Modena, che non aveva mai commesso ostilità contro la Francia, sotto titolo ch'ei fosse feudatario dell'impero d'Alemagna; qualità assai vana, che a niuna soggezione verso il corpo germanico obbligandolo, il lasciava intieramente libero di accostarsi a quale potenza più gli venisse a grado. Di questo non fu mai imputato, e solo si mise in campo questo pretesto, quando giunse il momento dello spoglio.

Tornando ora a Milano, dov'era la sede più forte dei repubblicani, e donde principalmente dovevano partire i semi di turbazione per tutta l'Italia, applicò l'animo Buonaparte a due risoluzioni di momento, e queste furono di dar licenza ai magistrati creati dall'arciduca prima che partisse, con surrogar loro magistrati, e uomini o partigiani, o dipendenti da Francia, e di procacciar denaro e fornimenti, che l'abilitassero a continuare il corso delle sue vittorie. Per la qual cosa, in luogo della giunta di stato, creava la congregazione generale di Lombardìa, ed al consiglio dei Decurioni surrogava un magistrato municipale, in cui entrarono volentieri parecchi uomini buoni e di grande stato. Francesco Visconti, Galeazzo Serbelloni, Giuseppe Parini, Pietro Verri. Il generale Despinoy presiedeva il magistrato, ed a lui si riferivano gli affari più gelosi e più segreti.

Per supplire intanto alla voragine della guerra, pubblicava Buonaparte sulla conquistata Lombardìa una gravezza di venti milioni di franchi, e faceva abilità ai commissarj, e capi di soldati di torre per forza i generi necessari, con ciò però che dessero polizze del ricevuto accettabili in iscarico della gravezza dei venti milioni. Intenzione sua era, ch'ella cadesse principalmente sui ricchi, sugli agiati, e sul corpi ecclesiastici da sì lungo tempo immuni. Nè fu diversa dall'intenzione la esecuzione: ma i ricchi, sì perchè si sentivano gravati straordinariamente, sì perchè non amavano il nuovo stato, con sinistre insinuazioni creavano odio in mezzo ai loro aderenti, e licenziavano i servitori, che, poco bene disposti in se per natura vecchia, ed avveleniti dalla miseria nuova, andavano spargendo nel popolo, massimamente nel minuto, faville di gravissimo incendio. Volle il magistrato municipale di Milano, posciachè in Milano principalmente abitavano i ricchi, rimediare a tanto male, ordinando che i padroni dovessero continuar a pagare i salarj ai servitori. Ma fu il rimedio insufficiente per la difficoltà delle denunzie. Nè contento a questo, perchè la necessità delle stanze militari, le somministrazioni sforzate di generi di ogni spezie, i caposoldi da darsi, il piatto da fornirsi ai generali, ai commissarj, ai comandanti, agli uffiziali talmente il costringevano, che non era più padrone di se medesimo, stanziava una imposta straordinaria sotto nome di presto compensabile, di denari quattordici per ogni scudo di estimo delle case e fondi Milanesi. Non parlo dei cavalli e delle carrozze che si toglievano, perchè essendo i padroni, come si diceva, aristocrati, pareva che la roba loro fosse diventata quella d'altrui. A questo si aggiungeva l'insolenza militare, consueta in ogni esercito, ma più ancora in questo che in altro, perchè a grandi e replicate vittorie era congiunta una opinione politica ardentissima, e molto diversa da quella dei popoli, fra i quali egli vivea. Dico questo generalmente, e massime dei primi, perchè degli uffiziali subalterni, molti o per gentile educazione, o per bontà di natura in tale guisa si portavano e dentro e fuori delle case del popolo conquistato, che si conciliavano la benevolenza di ognuno, e si era, per consuonanza, talmente addomesticata la natura di questi con quella dei Milanesi, che aveva superato l'impressione prodotta dal terrore delle armi, e dalle molestie di coloro, che in vece di servir di freno, come era richiesto ai gradi loro, con l'esempio e coi comandamenti, servivano di sprone alle male opere che si commettevano. Ma cagione gravissima di esacerbazione nei popoli erano le tolte sforzate di generi, che per uso dei soldati o proprio alcuni facevano nelle campagne; perchè in quei villarecci luoghi, liberi di ogni freno essendo, involavano a chi aveva ed a chi non aveva, e così agli amici, come ai nemici del nome Francese. Aggiungevansi le minacce e le insolenti parole, più potenti assai al far infierire l'uomo, che i cattivi fatti. Le quali cose molto imprudentemente si facevano: perchè oltre all'indegnazione dei popoli si consumava malamente in pochi giorni quello, che avrebbe potuto bastare per molti mesi, ed un paese fioritissimo inclinava rapidamente ad una estrema squallidezza. Ciò rendeva i Francesi odiosi, ma più ancora odiosi rendeva gl'Italiani, che per loro medesimi, o per le opinioni parteggiavano pei Francesi. Nè il popolo discerneva i buoni dai tristi, anzi gli accomunava tutti nell'odio suo, perchè vedeva che tutti ajutavano l'impresa di una gente, che venuta per forza nel loro paese, aveva turbato l'antica quiete e felicità loro. Certamente gridavano, e più assai che non sarebbe stato conveniente, i patriotti Italiani il nome di libertà; ma vana cosa era sperare, che nell'animo dei popoli consumati, ed offesi dall'insolenza militare prevalesse un nome astratto sopra un male pur troppo reale: detestavano una libertà che si appresentava loro mista d'improperj, e di ruberìe. Adunque lo sdegno era grande, la sola forza dominava. Prevalevansi i nobili, offesi nelle sostanze e nell'animo, di queste male contentezze dei popoli. A questi si accostavano gli amatori del governo dell'arciduca, e gli ecclesiastici, che temevano o della religione o dei beni. Spargevano nel contado voci perturbatrici, che sarebbe breve, come sempre, il dominio Francese in Italia; che quella terra era pur tomba ai Francesi, che sempre erano state subite le loro venute, ma più subite ancora le loro cacciate, o gli eccidj; nè permetterebbe Iddio, che gente nemica al nome suo stanziasse lungamente in quell'Italia, sede propria del suo santo vicario; già sventolar di nuovo le insegne d'Austria tra l'Adda ed il Ticino, già calar grossi imperiali eserciti dalle Tirolesi rupi, e già vacillare le armi in mano all'insolente Francese. Ora esser tempo di armarsi, ora di sorgere a difensione di quanto ha l'uomo di più sacro, di più caro e di più reverendo; gradire Iddio, e premiar coloro che hanno la patria più che la vita a cuore: nè doversi dubitar dell'evento, perchè già le repubblicane insegne fuggivano cacciate dalle imperiali aquile. Cresceva il mal contento, se ne aspettavano effetti funestissimi. Portò la fama in quei tempi, che principal autore di queste insinuazioni fosse il conte di Gambarana, uomo attivo e molto avverso ai Francesi. Andava egli seminando e le voci suddette, e di più, che i Francesi volevano far per forza una leva di gioventù Lombarda per mandarla, con le genti Francesi incorporandola, alla guerra contro l'imperatore. Quando gli animi sono sollevati, è pronta la credenza ad ogni cosa: e per quanto i magistrati eletti, e gli altri aderenti dei Francesi si sforzassero di persuadere ai popoli il contrario, non dimettevano punto la concetta opinione, anzi vieppiù vi si confermavano. In mezzo a tutti questi mali umori successe in Milano un fatto veramente enorme che gli fece traboccare e crescere in grandissima inondazione. Era in Milano un monte di pietà assai ricco, dove si serbavano o gratuitamente come deposito, o ad interesse come pegno, ori, argenti, e gioje di grandissimo valore. S'aggiungevano, come si usa, capi di minor pregio, e fra tutti non pochi appartenevano, secondo l'uso d'Italia, a doti di fanciulle povere, e nel monte dai parenti depositate si serbavano al tempo dei maritaggi loro. Sacro era presso a tutti il nome di monte di pietà, non solo perchè era segno di fede pubblica, che sempre incontaminata si dee serbare, ma ancora perchè le cose depositate, la maggior parte, appartenevano a persone o per condizione o per accidente bisognose.

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