Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III: краткое содержание, описание и аннотация

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Era il dì diciasette aprile, secondo giorno di Pasqua del millesettecentonovantasette, quando alle ore quattro meridiane scoppiava ad un tratto la terribil sollevazione Veronese. Incominciava da insulti e da minori fatti dai soldati Veneziani e dai Veronesi armati, contro le guardie Francesi sparse in vari luoghi della città. Il comandante Carrere, veduto quanto il tempo fosse minaccioso, ristringeva i suoi sulla piazza d'armi, pronto a correre dove bisogna fosse. In cotal guisa stava armato e raccolto lo spazio di un'ora, quando Balland fece trarre, erano le cinque della sera, qual segno di guerra, cannonate dai castelli. A quel rimbombo si conduceva spacciatamente Carrere con la sua schiera nel Castel-Vecchio, contro il quale già combattevano i Veronesi dalle case vicine. Il romore inaspettato delle artiglierìe Francesi diè cagione di credere ai Veronesi già tanto infiammati, che fosse intenzione di Balland di trattare ostilmente Verona. Nè s'ingannarono punto; perchè poco dopo traeva furiosamente contro il palazzo pubblico, che ne fu lacero e guasto in molte parti. Diroccarono al primo trarre le creste del palazzo degli Scaligeri. Cambiavasi in un momento l'aspetto della città; perchè vi sorgeva una rabbia, un gridare, un correre contro i Francesi da non potersi raccontare degnamente con parole. Un suonare di campana a martello continuo e precipitoso accresceva terrore alla cosa. Dei Francesi, coloro che si trovavano più vicini ai castelli, massime al Castel-Vecchio, in loro si ricoveravano a tutta fretta: ma non fu senza pericolo, perchè rabbiosamente gli seguitava il popolo, che gli voleva ammazzare, e bersagliandogli dalle finestre con palle, con sassi, con ogni sorte d'armi faceva loro il ritirarsi difficile e mortale. Il furore aveva preso non solo gli uomini ed i forti, ma ancora i vecchi, le donne, i fanciulli, ognuno volendo ricompensare con un sangue odiato le ingiurie ed i patimenti. Molti dei Francesi in tal modo fuggenti restarono uccisi, plaudendo all'intorno il popolo inferocito. Chi non potè ripararsi a tempo nei castelli, cercava salvezza nei più segreti nascondigli delle case; ma non però tutte, anzi poche erano loro sicure; perciocchè non pochi, rottasi dai padroni la ospitalità, vi restarono miseramente uccisi. Alcuni furon gettati nei pozzi, altri trafitti dai pugnali, altri risospinti fuori delle porte, perchè fossero segno alla rabbia popolare, che tuttavia fra le grida orribili, fra il rimbombo delle artiglierìe dei castelli, fra i tocchi incessanti pel suonare a stormo andava crescendo. Molti amministratori dell'esercito, molte donne, molti fanciulli, molti ammalati erano in Verona, e questi furono, la maggior parte, condotti a miserabil morte da un popolo, che pagava con eccessiva crudeltà contro gl'innocenti le ingiurie, le ruberìe, le fraudi, i tradimenti usati da chi aveva contro di lui contaminato il nome di Francia. Era spettacolo pieno di compassione e di terrore il vedere malati languenti perseguitati da sicarj sanguinosi, donne atterrite da donne furibonde. Noi vedemmo un portico, tutto lurido e stillante ancora di sangue di Francesi ammaccati piuttosto che trafitti da un immenso furore; noi vedemmo spoglie sanguinose tratte da pozzi e da fogne; noi vedemmo miserabili vestimenta serbate a gloria dai violenti trucidatori. Ma la pressa, le minacce, la crudeltà, che il cielo serbi condegno castigo agli autori veri di tanto infinita barbarie, erano intorno all'ospedal militare. Degli ammalati alcuni furono uccisi, parecchi malconci e spogliati. Nè le preghiere, nè la debolezza, nè l'aspetto medesimo della morte già vicina in un ferocissimo morbo potevano piegare a misericordia questi uomini, nei quali null'altra cosa d'uomo restava che il volto. Nè veniva meno la crudeltà per la stanchezza, o per lo sfogo; che anzi sangue chiamava sangue, e le forze, che mancano spesso al ben fare, non mancavano al mal fare. Se per assenza di vittime pareva un poco acquetarsi il furore, tosto si riaccendeva più fiero che prima, ove fosse scoperto un Francese; e di nuovo si dava mano alle stragi. Non in meno pericolosa condizione si ritrovavano i patriotti o Veronesi, o forestieri: che anzi maggiore contro di loro si mostrava la rabbia del popolo, che con più diligenza gli cercava, e quanti potè aver nelle mani, tanti uccise. Ma i più si erano ricoverati nei castelli, altri conficcati nel nascondigli passarono fra la speranza ed il timore parecchi giorni. Ma non tutto fu barbarie in questo lagrimevole accidente. Non pochi Veronesi, ed il conte Nogarola medesimo, quantunque fosse uno dei capi degl'insorti, conservarono, nascondendogli, a molti Francesi la vita, atto tanto più degno di commendazione quanto nel salvare la vita altrui correvano pericolo della propria; perchè non è da dubitare, che se il popolo si fosse accorto della pietà usata, avrebbe condotto all'ultima fine preservatori e preservati. Spargevasi intanto per le campagne il grido del caso di Verona: incominciavasi a toccar lo stormo; i villici accorrevano a torme armate nella tormentata città; e se il vecchio furore già languiva, l'accostamento del nuovo il rinfrescava. Le grida e le stragi rincominciavano, nè cessarono le uccisioni, se non quando non vi fu più uomo da uccidere. Mancata la materia dello ammazzare, si veniva in sul saccheggiare. Già il ghetto, essendo gli ebrei, oltre l'antico rancore, riputati partigiani di Francia, andava a ruba: già i fondachi del pubblico pericolavano, e non fu poco, che i provveditori potessero impedire, che coloro, i quali sì ferocemente combattevano per Venezia, le sostanze pubbliche di Venezia non rubassero. Tanto facilmente passano gli uomini infuriati dalle uccisioni ai latrocinj, dai latrocinj alle uccisioni. Correva il sangue per le case, correva per le contrade, i castelli tuonavano, gli Schiavoni infuriavano: anzi uniti al popolo volevano dar l'assalto a quei nidi, come dicevano, dove si erano confinati i tiranni d'Italia. Il maggior pericolo era pel Castel-Vecchio: posto essendo vicino alla città, potevano i soldati ed il popolo assaltarlo più facilmente; nè le sue difese erano forti, poichè dava adito al castello un ponte chiuso solamente da un cancello di ferro, e la porta di debol legno era anche priva di saracinesca.

Il provveditor Giovanelli, in mezzo a tanta confusione e tanti sdegni, avrebbe voluto, non far deporre le armi, perchè nè la tempera degli animi Veronesi, nè il trarre continuo dei castelli il permettevano, ma frenare la barbarie, ed introdurre ordine e misura, là dov'era solamente confusione e trascorso. Tanto si adoperava in questo lodevole pensiero, che per poco il popolo non l'aveva per sospetto, e si proponeva, posposta l'autorità di lui, di voler fare da se. Importava intanto l'impadronirsi, per aprir l'adito agli aiuti esterni, delle porte, che tuttavia si trovavano in possessione dei Francesi. Il maggior presidio era in quella di San Zeno. Il conte Francesco degli Emilj, che alloggiava nella terra di Castel-Nuovo con due pezzi di cannone, seicento Schiavoni, duemilacinquecento contadini, e fronteggiava un grosso corpo di Francesi e d'Italiani, affinchè non corressero contro Verona, udito il pericolo della sua patria, correva subitamente in suo aiuto, e dopo un sanguinoso conflitto, fatto prigioniero il presidio, recava in sua potestà la porta di San Zeno, entrando con tutti i suoi, il che dava nuovo animo ai cittadini. Facevano lo stesso della porta Vescovo il capitano Caldogno, e di quella di San Giorgio il conte Nogarola. Così gli abitatori del contado potevano entrare liberamente a soccorrere Verona. Giunto il rinforzo del conte degli Emilj, assalivano i Veronesi più fortemente i castelli, massimamente il vecchio, e più fortemente dentro di loro si difendevano i Francesi, certi essendo, che in tanta rabbia popolare, per cui già erano stati morti i non combattenti, da quella difesa non solo dipendeva la possessione dei luoghi, ma ancora la salute, e la vita loro.

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