Carlo Botta - Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III

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Storia d'Italia dal 1789 al 1814, tomo III: краткое содержание, описание и аннотация

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Simili cose scriveva il nobile Querini da Parigi, ma come se velate da maggior dissimulazione alle orecchie sue pervenissero; perchè ora erano minacciose le parole del direttorio, ed ora dolci; ora accusava Venezia, ed ora la scusava, e da tante ambagi niuna cosa certa poteva ritrarre l'ambasciadore Veneto, se non se che si macchinava qualche gran trama contro la repubblica, e che era pericolo che l'Austria, per consentimento della Francia, se la rapisse. Ma perchè non mancasse alcuna lagrimevole condizione in così grave e così vicino pericolo, fu provato da gente vendereccia di sottrarle denaro sotto promessa di salute. Un certo Viscovich, di nazione Dalmata, si appresentava al nobile Querini, dicendo che era in mano sua il salvare la repubblica; che in quel punto stava deliberando il direttorio, se convenisse spegnere le rivoluzioni della terraferma con dar mano forte al senato, o di condurle a compimento con dare fomento ed ajuto ai ribelli; che due direttori erano in favore della repubblica, due contro, il quinto in pendente; che quello era il tempo di spendere per la salute comune; che ove il senato volesse dar sette milioni di franchi, Venezia sarebbe preservata; che di presente abbisognavano seicento mila franchi pel direttore titubante, con altri cento mila pei beveraggi agl'intromettitori. Rispondeva Querini, non avere autorità di obbligare il pubblico per tanta somma. E brevemente, pressato poi dal Viscovich, che la cosa era alle strette, che quello non era tempo da perdere, che se non prometteva, in quel giorno stesso si statuiva la morte della repubblica, si lasciava tirare a dir del sì per somma sua divozione verso la patria, e sottoscriveva biglietti per seicento mila franchi sopra Pallavicini di Genova, con patto che stessero in deposito, finchè non avesse in sua mano una lettera scritta dal direttorio a Buonaparte, intimatrice del dover frenare i faziosi della terraferma, e ridurre le città sotto il dominio. La lettera non potè avere Querini; bensì gli fu consegnata una carta col titolo in fronte, e colla marca del direttorio esecutivo, e sottoscrizione del segretario di Barras, per cui si affermava, che la lettera del descritto tenore era stata scritta dal direttorio a Buonaparte. Fu il trattato approvato dal governo a Venezia: mandavasi al console in Genova, s'intendesse con Pallavicini, perchè obbedisse le cambiali del Querini. Stava in aspettazione l'ambasciatore di quello che avesse a succedere; ma vedendo le cose della terraferma andar sempre di male in peggio, richiedeva Viscovich della restituzione dei biglietti. Negava il Dalmata la restituzione. Furono presentati a Querini nel mese di luglio in Venezia, dopo il cambiamento dello stato, acciocchè ne effettuasse il pagamento: gli protestava; fu carcerato, ed esaminato per ordine del direttorio per querela di aver voluto corrompere il governo Francese. Questa fu veramente un'arte cupa; perchè, se vi fu corruzione, e certamente in qualcheduno fu, ella non andò già da Querini ad altri, ma da altri a Querini.

Intanto un accidente, frutto di una vituperevol fraude da una parte, accompagnato da una estrema crudeltà dall'altra, famoso al mondo per l'importanza sua, e pel paragone di un altro fatto rinomato nelle storie, era vicino a sorgere nella principale città della Veneta terraferma. Abbiamo già raccontato, come Buonaparte, perchè l'Austria accettasse da lui, in ricompensa dei Paesi Bassi, e del Milanese, lo stato Veneziano, si era messo in punto di farlo rivoltare contro il senato. Insidiò principalmente Verona. I suoi agenti non lasciavano alcuna cosa intentata, e la popolazione Veronese contaminavano con promesse agli avidi, con istimoli agli ambiziosi, con mostra di libertà, con abbominazione di tirannide agli amatori del vivere libero. Il senato all'incontro avendo avuto sentore, anzi certezza delle trame di Verona, vi aveva mandato, come già abbiam raccontato, provveditori straordinari, uomini di fede e di virtù, con un forte polso di genti Schiavone. Vi arrivavano, oltre a ciò, i villani dei contorni, ai quali erano state messe in mano le armi: erano una massa considerabile. Stavano ambe le parti vigilanti, l'una per impedir gli effetti delle suggestioni e delle sommossioni d'oltre Mincio, l'altra per ajutarli. Gli animi infiammati dall'un canto, arrabbiati dall'altro, insospettiti tutti, si mostravano pronti, non solo ad usare le prime occasioni gravi, ma ancora a prorompere per le più leggieri, ed una voce, un suono, un segno che uscisse, potevano partorire una generale commozione. In tanta concitazione reciproca le cagioni potevano nascere ugualmente dall'una e dall'altra parte. Da tutto questo conoscerà il lettore, che poco rileva il sapere, se si sia incominciato a far sangue dai Francesi, o dai Veronesi, perchè proposito dei capi Francesi era di far rivoluzione in Verona, proposito dei Veronesi d'impedirla: i primi volevano darla all'Austria, i secondi conservarla a Venezia; e so ben io ciò, che farebbero i Francesi, o gl'Inglesi, se qualche potenza forestiera vendesse ad un'altra Lione, o Birmingham.

Era debole il presidio Francese in Verona, nè atto per se a tanta mole; perchè il generalissimo aveva avuto bisogno di tutte le sue forze contro l'Austria, ma si sperava nei maneggi secreti, e nell'opera dei novatori, ed oltre a ciò incominciava a scoprirsi nel Padovano la schiera di Viotor mandata da Buonaparte a rivoltar lo stato nella terraferma. Si accostava inoltre Lahoz coi Lombardi, e Polacchi, accostavansi le masse repubblicane di Brescia e di Bergamo, ed il forte presidio di Mantova poteva dare da luogo vicino nervo all'impresa. Intanto il capitano Carrere, comandante di Verona, soldato amantissimo della repubblica, ma probo e religioso, vedendo il pericolo tratteneva ogni Francese che da Francia venisse, od in Francia ritornasse, per modo che riuscì a raccorre circa ottocento soldati. Arrivavano poco stante duecento Cisalpini, valorosa gente, capitanata in gran parte da Francesi, ed assai disposta a secondargli. Già segni annunziatori di quanto doveva succedere si spargevano per le campagne: erano in ogni luogo minacce, mischie, ed uccisioni. I sollevati dipendenti da Buonaparte uccidevano i sollevati, che gridavano San Marco; dall'altra parte dei Francesi isolati, coloro, che s'imbattevano in gente più moderata, erano o arrestati, od insultati; quei, che incontravano uomini più sfrenati, erano uccisi. Un prete, figliuolo del conte Malenza, postosi in agguato con una squadra di mila villani, infestava le strade tra Peschiera e Verona. Incessantemente si predicava, volere i Francesi fare una rivoluzione per impadronirsi delle sostanze dei popoli, e singolarmente del monte di pietà, dove erano grandissime ricchezze. Allegavano l'esempio del monte di pietà di Milano depredato contro le leggi del giusto e dell'onesto. Il fatto era pur troppo vero, e la ricordanza di lui produceva una rabbia incredibile in mezzo a quelle popolazioni già tanto concitate. Succedevano in Verona stessa ad ogni momento minacce tra Francesi e Schiavoni, succedevano altercazioni frequenti tra Francesi e Veronesi, ed allora gli Schiavoni si allontanavano. Le nappe con l'impronta del Lione, insegna della repubblica di Venezia, davansi a chi ne bramava. Godeva il provveditore nel vedere animi sì pronti, e tante difese apprestate. Dava opera ad ordinarle; descriveva i villani accorsi, raccomandava l'ordine e la quiete, comandava, non offendessero persona; solo stessero armati, e pronti. Così l'agro Veronese suonava tutto all'intorno d'armi contrarie, ed armi contrarie erano in atto d'affrontarsi dentro le mura stesse di Verona. Preparavansi i magistrati a propulsare qualunque assalto, fatti accorti dai fatti di Bergamo, Brescia, Crema, ed ancor più dalle novelle certe delle intenzioni di Buonaparte. Il generale Balland surrogato a Kilmaine nel governo militare di Verona, sollevato d'animo a tanti romori, scriveva al provveditore, esortandolo a provvedere, che i disordini cessassero. Rispondeva il Veneziano, che il farebbe, sempre anzi averlo fatto, ma toccava rimproverando i maneggi degl'insidiatori, mandati a posta per sommuovere le province.

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