Anton Barrili - L'undecimo comandamento - Romanzo
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– Confessi, signor duca, – osservò la sottoprefetessa, – ch'Ella è innamorato del discorso ed anche dell'oratore.
– Sì, non lo nego, ho trovato del buono nell'uno e nell'altro. E poi, quella cortese accoglienza del refettorio, mi ha messo di buon umore, mi ha fatto parer grazioso, tollerabile, anche quel branco di matti.
– Saluteremo dunque un nuovo frate di San Bruno? – domandò la signora Morselli.
– Se parla per me, non credo; – rispose il duca. – Ho ben altre idee per il capo!
– E ben altri uffici l'aspettano nel mondo; – aggiunse gravemente il sottoprefetto, dando un'occhiata al signor Prospero, commendatore di là da venire.
– Non ho ambizione, – rispose modestamente il duca; – ma siccome il mondo non mi ha fatto nulla, e non ho ragione di fuggire il bel sesso, che mi è tanto cortese della sua attenzione in questo momento, io non mi farò frate, lo giuro. Dico soltanto che anche lassù, per qualche settimana, ci si potrebbe vivere. È intenzione di quei frati di avere nel loro convento ogni cosa necessaria, ed anche molte delle superflue, che pure aiutano tanto ad abbellire la vita e a coltivare lo spirito. A farla breve, si foggiano un piccolo mondo nel grande, e ci si chiudono dentro.
– E dal grande, – chiese il sottoprefetto, col suo solito acume, – non filtrerà nulla di gramo nel piccolo?
– Sostengono di no, cavaliere mio. La loro teorica, come ho avuto l'onore di dirle, è fondata sulla serietà della seconda vocazione. Uomini provati alle battaglie e infastiditi dalle vanità della vita, si ritirano al deserto, non portando altro con sè che il desiderio della pace. Quali ambizioni minute potrebbero turbarli nel loro ritiro, se hanno rinunziato alle grandi? L'Ariosto ha collocata la discordia in un convento di frati. Ma questi hanno giurato di non volercela a nessun patto. Per dare il buon esempio, il priore, a mala pena saranno arrivati i cinque nuovi compagni che si aspettano, convocherà il capitolo, per rassegnare la sua dignità, accettata pro tempore e nel solo intento di dare indirizzo al suo ordine.
– Ed è un bel giovane, questo priore? – domandò la signora Morselli.
– Tanto simpatico; – rispose il duca.
– E in che modo s'è ridotto lassù? Che disinganni ha potuto avere?
– Signora mia, glie l'avrei chiesto volentieri, ma ho avuto paura di passare per un curioso. Lassù non amano i curiosi, e ho dovuto tenermi la voglia in petto.
– E gli altri frati, come sono?
– Belli e brutti, giovani e maturi; ce n'è per tutti i gusti.
– Oh, stiano pure da sè; – gridò la signora Morselli. – Nessuna donna vorrà piangere la loro fuga dal mondo. Quantunque, – soggiunse, – bisognerebbe trovare il modo di farli pentire. Questo loro proponimento mi pare una sfida bella e buona, e Lei, signor cavaliere, dovrebbe raccoglierla.
– Ci penserò; – disse il sottoprefetto, con accento solenne. – Qualche cosa si potrà fare certamente. Perchè infine, Ella ha ragione, signora; qui c'è un principio di mal esempio. Nessuno può sottrarsi agli obblighi della convivenza sociale; è cànone di filosofia civile. Siamo tutti operai, del pensiero o del braccio. Una società bene costituita non può ammettere queste diserzioni, e un savio governo dee volgere tutta la sua autorità a rimediarci. Questi tentativi di ribellione alla legge morale, anche non espressamente vietati dal codice, vogliono essere repressi, con quel diritto che emana dallo spirito, se non dalla lettera del codice. L'uomo che si apparta è come il lavorante che si arresta, ritardando col fatto suo il compimento dell'opera comune. Sventura ai popoli in cui s'infiltra questo male del ritirarsi in disparte, poichè allora la decadenza incomincia! Abbandonare le vie del consorzio benevolo, per pochi o molti dolori che se ne temano, è un rinunziare anticipatamente all'onore e al frutto delle utili iniziative, in cui c'è campo per tutte le operosità; un rinnegare la saviezza vigilante del governo, che tutto vede, punisce e premia quando occorre, ed ha balsami anche per la virtù male ricompensata. Questa, almeno, – conchiuse il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia, – è la mia opinione. – E si concentrò gloriosamente nel vuoto sonoro delle sue frasi, lasciando che i suoi uditori argomentassero, da quel piccolo saggio, con quante chiacchiere si governi il mondo.
V
Arrivato a questo punto della mia narrazione mi par di sentire il lettore che esclama: – Un nuovo ordine monastico nel secolo decimonono! E, quel che è peggio, senza l'accompagnamento dello scopo religioso! nel solo intento di appartarsi dal mondo! Eh via!
Lettore umanissimo, e perchè no? Siamo davanti ad un caso strano, lo capisco. Ma il secolo decimonono, in riga di pazzie, va forse celebrato come la perla dei secoli? O non ne ha già fatte fin d'ora più di tutti i suoi riveritissimi predecessori? Vedete l'Icaria di Cabet, il Falanstero di Saint-Simon, il mormonismo, lo spiritismo, il comunismo, il nichilismo, e tanti altri tentativi di cataclismo. Io non voglio certamente paragonare tutta questa grazia di Dio con un povero convento di matti; mi fermo, anzi, a stabilire come esso sia il meno spiccato, il più innocente, il più roseo, tra tanti bei saggi della incontentabilità umana; i quali, germogliati all'ombra delle patrie leggi e fiorenti al sole della libertà…
Ma qui m'accorgo di metter mano ad una retorica, sulla quale il sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia potrebbe vantare il diritto della priorità. Prior in tempore, potior in jure ; lasciamo dunque la retorica al degnissimo cavalier Tiraquelli, e ripigliamo il filo del nostro racconto.
Il monastero di San Bruno aspettava in quei giorni un rinforzo. Erano cinque i nuovi ospiti, cinque le anime deluse che la seconda vocazione spingeva a cercare la pace in quel nido di laici regolari, sotto il governo temporaneo di padre Anacleto. Con questo nome era riconosciuto il priore. Fratel Giocondo aveva ricevuto ordine di dar passo ai cinque nuovi compagni, a mala pena si fossero presentati sul ponte, chiedendo d'essere avviati al convento.
La stessa mattina in cui aveva ricevuto quell'ordine del priore, il nostro converso dischiuse i battenti della torre a due ospiti. Veramente, gliene avevano annunziato cinque; ma non era poi necessario che dovessero capitargli tutti insieme. – Sono già due; – osservò egli giudiziosamente in cuor suo, – gli altri verranno dopo.
E rivolto ai due visitatori, domandò loro col sorriso sulle labbra:
– Vengono per farsi frati?
– È il nostro desiderio; – disse il più giovane dei due, mentre l'altro crollava la testa in atto di santa rassegnazione.
Erano due tipi diversi, nell'età, nell'aspetto, nella espressione. Il giovine era biondo, di belle fattezze e di proporzioni elegantissime, ma un pochettino impacciato ne' suoi abiti di viaggio. Come mai, sul limitare della vita, sentiva il desiderio di rinchiudersi in un convento? Quali dispiaceri potevano averlo colpito, con quella figura di arcangelo in vacanza, che pareva fatta a bella posta per vincere ogni resistenza? E il vecchio, così grasso, tondo, rubicondo e lucente, di che cosa poteva egli lagnarsi? Forse il cuoco gli aveva mandata a male una salsa? Ma bastava ciò per disamorare del mondo un bofficione di quella fatta?
Ahimè, lettori, pur troppo le apparenze ingannano. E nel caso presente ingannavano più che mai.
Scambiate le poche parole necessarie e pagato il contadino che aveva portate le loro valigie, i due viaggiatori seguirono il converso, a cui il più giovine dei due sorrise amabilmente, come si sorride in paese straniero ad una faccia conosciuta. Entrati nel bosco, risalirono il viale dei frassini, svoltarono tra i due poggi che sapete, videro il convento in mezzo alla sua conca di verdura, ridiscesero e finalmente giunsero al parlatorio.
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