Anton Barrili - L'undecimo comandamento - Romanzo
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– Ah bene! questo è il fatto nostro; – gridò il padre Anacleto. – Oh, non dubiti, non le domanderemo i cartoni di Raffaello. I soli principii del disegno basterebbero. Abbiamo in mente di fare un giornale, una specie di rassegna mensile, per registrarvi i nostri studi, e avremo appunto bisogno di tavole illustrative; segnatamente per gli scavi delle nostre caverne.
– Ahi come il duca di Francavilla! – scappò detto allo zio.
– Lo conoscono? È un bravo signore, che ha voluto farci una visita.
Egli è qui a Castelnuovo per certi suoi studi preistorici…
– Per studi, e per altro; – mormorò il cherubino, che la sapeva lunga, anche senza aver ombra di baffi.
– Non saprei; – ripigliò il padre Anacleto, che era prudente e non andava a cercare il pel nell'uovo. – È venuto a trovarci una settimana fa e non ci ha parlato d'altro che delle sue ricerche scientifiche. Anche noi avevamo già pensato a scavare le caverne ossifere di monte Acuto; ma finora ci mancava l'uomo da ciò. Ora avremo uno studioso di queste materie, tra i cinque che verranno in settimana a far vita con noi. È un valente professore. Insegnava a Torino. Gli hanno fatto torto, a quanto pare; qualcheduno si è fatto bello di una sua scoperta; il governo non lo ha tenuto nella giusta considerazione, ed egli ha abbandonata la cattedra. Come vedono, son tutti i delusi, i disgustati delle perfidie umane, che vengono ad accrescere la nostra schiera. Metteremo il professore all'archeologia, ed Ella disegnerà gli oggetti ritrovati. Va bene?
– Sì, sì! – gridò il cherubino, battendo allegramente le palme.
Ma subito si penti di mostrarsi così bambino in faccia al priore, che lo guardava tra sospettoso e ammirato; arrossì per la terza volta, chinò gli occhi e ripigliò:
– Scusi, la prego; ma gli è che son tutto felice di trovare in me un piccolo talento, che possa tornare utile alla comunità. – Stabiliti questi preliminari, il padre Anacleto si offerse ai nuovi ospiti di San Bruno, per condurli a visitare il convento, e l'offerta fu accettata con giubilo dal biondo cherubino, che vedeva così superate tutte le difficoltà della sua introduzione in quella bizzarra clausura.
Anche allo zio era parso di escirne egregiamente. A farselo apposta, un priore, non si poteva ottenerlo più pastoso di così.
– Che sia cieco? – pensava egli, mentre seguiva il padre Anacleto e il biondino, nella loro passeggiata per tutti i corridoi del convento. – Quando egli ha messo fuori quel dubbio intorno all'età, ho subito detto: ci siamo! E come lo squadrava dal capo alle piante! Ma poi, sia lode al cielo, s'è lasciato abbindolare con tanta buona grazia! È anche vero che gli è stato risposto con un certo calore!.. Non fo per dire, ma il mio signor nepote, poichè oramai bisogna chiamarlo così, ha una eloquenza che va diritta al cuore. Non si sgomenta di nulla, lui! Vi guarda nel bianco degli occhi, e vi fa fare tutto quello che vuole; anche delle pazzie come questa. Ma saranno tutti ciechi e tre volte buoni come il padre Anacleto! Qui sta il busilli. – Il nepote, frattanto, pensava anche lui, mentre andava scambiando osservazioni col priore.
– Ha capito? Temo di sì. Per lo meno, il dubbio gli è nato. Ma egli è un gentiluomo, e non è andato più in là. Questa avventura mi piace. Ci sarà qualcosa da ridire; ma infine, si servano, io non ho da render conti a nessuno. E poi, sono con mio zio. Questo priore, che uomo! Il duca di Francavilla lo ha chiamato simpatico; ma mi pare che sia più di simpatico; un bel giovane addirittura; e senza saperlo, senza averne l'aria, come dovrebbero esser tutti. È la prima faccia d'uomo che vedo. O son tutti insipidi, svenevoli, come il duca di Francavilla, o duri, arcigni, antipatici… Che orrore! —
Vi fo grazia del resto. E non mi fermo neanche a dipingervi tutto quello che videro i nuovi ospiti di San Bruno. I conventi, su per giù, si rassomigliano tutti nella loro semplicità grandiosa ed umile ad un tempo, che credo entri per molto nella tenacità del sentimento che fa perdurare gli ordini monastici, che li fa sopravvivere alle leggi da cui sono stati colpiti. C'è una virtù arcana che attrae verso le mezze solitudini del chiostro, e quella forma architettonica stabilita, quasi invariabile, salvo nei minuti particolari, esercita un fascino sullo spirito moderno, che pure ha distrutto il pensiero onde quella forma è scaturita. Sono spariti i conventini, i monasteruzzi borromineschi di due secoli fa; il largo tipo dei chiostri antichi è rimasto, e se ne ricorda volentieri perfino… indovinate chi? il nostro soldato, che è stato così spesso ad alloggio nei vecchi monasteri tramutati in caserme.
Il convento di San Bruno, come tutti quelli del medesimo ordine, aveva i suoi quartierini, in cui ogni frate potesse viver solo, con la sua stanza da letto, l'oratorio, l'anticamera e la ruota per cui introdurre il suo pasto frugale, o metter fuori la scodella vuota. Ma la ruota, oramai, serviva soltanto per le lettere e i giornali, quando giungeva il postino; la stanza da letto non era più così nuda come al tempo dei camaldolesi; quanto all'oratorio, ognuno ci teneva la sua biancheria, i suoi abiti, e all'occorrenza i suoi libri più alla mano. Fratel Giocondo, ad esempio, ci teneva il Gattinara e il Pomino, due autori di sua predilezione, tra i quali da lungo tempo aveva istituito un confronto.
I due novizi furono condotti alle loro stanze. Il priore non aveva chiesto i loro nomi, ma li chiese allora il converso, facendosi avanti col registro dell'ordine.
– È vero; – disse il cherubino; – avevamo dimenticato di darli. Zio, incominciate. – Il vecchio prese la penna e scrisse il nome di Prospero Gentili.
Il giovine, con meno sincerità, ma con altrettanto coraggio, vi scrisse quello di Adelindo Ruzzani.
VI
E intanto, la signorina Adele Ruzzani, dov'era?
Domandiamolo al sottoprefetto di Castelnuovo Bedonia. Il degno ufficiale del governo, che ha in mano il servizio della pubblica sicurezza di tutto il circondario, dovrebbe sapere ogni cosa. "Nulla sfugge all'occhio vigile dell'autorità" era una delle sue frasi predilette.
Ora, ecco ciò che sapeva il cavalier Tiraquelli.
Due giorni dopo quella sua famosa conversazione sotto il loggiato, egli vedeva di bel nuovo il suo interlocutore ed amico, il futuro commendatore signor Prospero Gentili.
– Orbene, come vanno le cose? – gli aveva chiesto senza dargli tempo di esporre le ragioni della sua visita mattutina. – A me pare che ci sia un progresso. L'ha notata anche Lei, l'attenzione vivissima con cui la sua bella nepote ascoltava l'altra sera il duca di Francavilla? È un buon segno; che ne dice?
– Sì, un buon segno, – ripetè il signor Prospero con aria distratta.
– Che? Non le pare? – gridò il sottoprefetto, che coglieva le mosche per aria.
– Ho forse detto il contrario? – chiese il signor Prospero, prendendo una scossa improvvisa.
E dentro di sè aggiunse:
– Non ci mancherebbe altro! Dopo che quella birichina m'ha fatto giurare!..
– No; – rispondeva frattanto il sottoprefetto; – ma credevo che Ella ci avesse ancora qualche dubbio.
– Per me, niente affatto; – ripigliò il signor Prospero. – Quantunque, per esser sicuri, sarà utile di parlare con lei.
– Lo faccia una volta, al nome di Dio. Se non lo fa Lei, chi ha da farlo?
– È giusto; – disse il signor Prospero, – è giusto. Gliene parlerò, appena saremo tornati da questo viaggio.
– Questo viaggio! – esclamò il sottoprefetto. – O dove?
– Come? Non gliel ho ancor detto? Ero venuto a bella posta per prendere congedo. Veda un poco dove ho la testa!
– E dove va? – tornò a chiedere il sottoprefetto, senza curarsi più che tanto di vedere dove avesse la testa il signor Prospero.
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