Anton Barrili - Il ritratto del diavolo

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Anton Giulio Barrili

Il ritratto del diavolo

I

Lettori gentili, siete mai stati ad Arezzo? Se non ci siete mai stati, vi prego di andarci alla prima occasione, anche a costo di farla nascere, o d'inventare un pretesto. Vi assicuro io che mi ringrazierete del consiglio. La Val di Chiana è una tra le più amene e le più pittoresche "del bel paese là dove il sì suona". Anzi, un dilettante di bisticci potrebbe sostenere che il è nato proprio in Arezzo, poichè fu aretino quel monaco Guido, a cui siamo debitori della scala armonica. Ma, a farlo apposta, Guido d'Arezzo non inventò che sei note, dimenticando per l'appunto di inventare la settima. Forse, ribatterà il dilettante di cui sopra, Guido non ha inventato il si , perchè questo era già nella lingua madre, o il brav'uomo non voleva farsi bello del sol di luglio. Comunque sia, andate in Val di Chiana e smontate ad Arezzo. La città non è vasta, ma che importa? Il Guadagnoli, che era d'Arezzo, pensava forse alla sua terra, quando diceva ad una graziosa dama:

Signora, se l'essere
Piccina d'aspetto
Vi sembra difetto,
Difetto non è.

A buon conto, la città è piccola, ma ci ha le vie larghe, pulite e ben selciate, il che non si trova mica da per tutto; possiede molte ed insigni opere d'arte, un prefetto, un vescovo, due buoni alberghi e un caffè dei Costanti, che vi dà subito l'idea di una popolazione d'innamorati. La qual cosa non mi farebbe punto specie, poichè le aretine son belle di molto, tanto da far dimenticare perfino i grandi uomini che son nati in Arezzo, da Mecenate, amico d'Augusto, a Francesco Redi, amico del vino.

Frattanto, lettori gentili, venite in Arezzo con me. Non ci si va col vapore, ma a cavallo, perchè siamo cinque secoli addietro; si passa una delle quattro porte della città, che è cerchiata di mura per un giro di tre miglia, e si scende alla bottega di mastro Jacopo da Casentino.

Dico bottega, per andare coi tempi; ma oggi si dovrebbe dire studio, perchè mastro Jacopo da Casentino era un pittore, e meritamente annoverato tra i migliori del suo tempo. Era nato a Prato vecchio, nella famiglia di messer Cristoforo Landino, e il nome patronimico lo aveva avuto da un frate di Casentino, guardiano al Sasso della Vernia, che l'aveva preso a ben volere, e, vedendo la sua inclinazione all'arte del dipingere, lo aveva acconciato con Taddeo Gaddi, nel tempo che questo valoroso scolaro di Giotto era a lavorare nel suo convento.

Sotto la scuola di mastro Taddeo, il giovinetto Jacopo aveva profittato grandemente, sì nel disegno, sì nell'arte del colorire. Erano quelli i bei tempi della pittura. Giotto, con nuova maniera, sciogliendo la figura umana dalle rigidezze dell'arte bisantina, aveva additata una strada su cui tutti i giovani si gittavano animosi, sperando di avanzare in eccellenza il maestro. E Jacopo, andato a Firenze con Taddeo Gaddi, non fece torto alle speranze che questi aveva concepite di lui, dipingendo tra l'altre cose il tabernacolo della Madonna di Mercato Vecchio e le vòlte d'Orsanmichele, che aveva ad essere il granaio del Comune.

Rimasto alcuni anni col Gaddi, come a provar le sue forze, e persuaso oramai di poter volare da sè, Jacopo era tornato nel suo Casentino, e in Pratovecchio, in Poppi e in altri luoghi della valle medesima, aveva dato mano a molte opere di cui s'era vantaggiata la sua fama, non così la sua borsa. Dopo di che, adescato da più ragguardevoli offerte, si era ridotto a stabile dimora in Arezzo, che allora si governava da sè medesima, col consiglio di sessanta cittadini dei più ricchi e più onorati, alla cura dei quali era commesso tutto il reggimento.

Mastro Jacopo non era solamente pittore, ma pizzicava eziandio d'architetto. E perchè in Arezzo scarseggiavano le acque, fin dal tempo dei Goti, che avevano guasti i condotti onde l'acqua scendeva dal poggio di Pori in città, fu commesso a mastro Jacopo di ricondurvela. Il che egli fece a sua lode, portandola per nuovi canali fin sotto le mura, ad una fonte detta allora dei Guinicelli, e poscia, corrottamente, dei Veneziani.

Ma questo sono notizie che importano poco al soggetto. Passiamo, dunque, senza fermarci troppo sull'architettura di mastro Jacopo, e raccontiamo ai lettori che da molti anni il degno artefice aveva messo su famiglia, e viveva felice, come può esserlo un uomo in questa valle di lagrime, che non è tutta una Val di Chiana, pur troppo. Intanto, seminava dei suoi affreschi tutte le chiese di Arezzo, facendo prova di una maniera e dì una pratica maravigliosa.

Un'altra fortuna era toccata a mastro Jacopo; quella io vo' dire di mostrare ad un altro, e con frutto, i principii di quell'arte che a lui aveva insegnata il Gaddi. Ai giorni nostri i pittori non fanno più scuola, o non si rodono di avere dei buoni discepoli, come una volta. Ogni artista lavora per sè, gelosamente tappato nel suo studio, quasi temendo che altri gli rubi il tocco, o l'impasto dei colori. Ma in quei tempi di vita rigogliosa per l'arte, era una festa aver gente dattorno, e un pittore non si teneva per maestro, se non aveva una mezza dozzina di scolari, uno dei quali, uno almeno, di più facile ingegno e di più pronta volontà, seguitasse la maniera, serbasse le tradizioni del principale e facesse onore alla scuola.

Di questi scolari, o garzoni, o fattori (come si dicevano in quel tempo che lo studio d'un pittore si chiamava bottega) mastro Jacopo ne aveva parecchi; ma uno solo meritava il nome di discepolo, e si domandava Spinello, figlio ad un certo Luca Spinelli, fiorentino, che era andato forse vent'anni addietro ad abitare in Arezzo, quando, una volta fra l'altre erano stati discacciati da Firenze i Ghibellini. Arezzo, se nol sapete, era ghibellina nell'anima.

Spinello Spinelli era un bel giovinottino, nato pittore come Giotto, e inclinato fin da fanciullo ad operare nel disegno tali miracoli, che non si sarebbero creduti possibili senza la disciplina di ottimi maestri. Jacopo di Casentino, veduti i suoi tocchi in penna, lo aveva voluto a bottega. E Spinello non si era fatto pregare; che anzi, moriva dalla voglia di andarci, specie dopo che aveva veduta e ammirata nel Duomo vecchio la più bell'opera di mastro Jacopo.

Ora, la più bell'opera di mastro Jacopo, che Spinello potesse ammirare nel Duomo vecchio, non era già il ritratto di papa Innocenzo VI, come qualcuno potrebbe credere a tutta prima. La più bell'opera di mastro Jacopo era madonna Fiordalisa, a lui nata in Firenze, quando egli stava laggiù, ai servigi del Gaddi.

Dico Fiordalisa, per non ingenerar confusione. Ma i toscani d'allora non sentivano nessuna ripugnanza a dire madonna Fiordaliso, in quella stessa guisa che non ne sentivano a dire madonna Fiore, madonna Belcolore, e via di questo passo, concordando un nome mascolino con un nome femminile. Del resto, la grazia e l'eleganza femminile c'erano tutte, nel viso di madonna, spiravano da ogni parte della sua bella persona, e le desinenze non ci avevano nulla a vedere.

Fiordalisa, nata a Firenze, era in Arezzo da pochi mesi; ma fin dai primi giorni del suo arrivo colà, era stata veduta, notata e riconosciuta come un miracolo di bellezza. È facile che si nasconda un grand'uomo, in mezzo alla moltitudine, e che rimanga ignoto, in una città nuova per lui; ma non c'è caso che si nasconda egualmente una bella ragazza. Il primo che l'ha vista, poniamo anche di sbieco, ne passa parola ad un altro, e questi ad un terzo, anche prima di averla intravveduta lui; donde avviene che fin dal primo giorno che è stata annunziata la selvaggina, un centinaio di bracchi da punta sieno sguinzagliati alla macchia.

Ora, i giovinotti d'Arezzo non s'erano mica indugiati per istrada; avevano scoperto subito la bella fiorentina, l'avevano scovata, levata, come i suoi concittadini avrebbero levato il grillo dal buco, la mattina dell'Ascensione. Fiordalisa non esciva di casa che i dì di festa, per andare nel Duomo vecchio agli uffizi divini. Ma tanto bastava perchè la vedessero tutti, e perchè ci fossero di gran capannelli sul sagrato del Duomo, quando ella doveva passare.

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