Giuseppe Giacosa - Novelle e paesi valdostani
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A un punto tutti fuggono a precipizio, come sbaragliati e riparano sbandandosi dietro i grossi massi sparsi per la costa. Segue un silenzio ansioso, grave di imminente rovina. Poi la caverna manda un ruggito spaventevole e vomita, come un cratere, vortici di fumo. – Gli operai accorrono contenti a considerare le squarciature della mina, e dal nuovo aspetto della grotta ricavano l'oroscopo di un agevole od ingrato còmpito per l'indomani.
A sole caduto, la Creia è muta come un deserto.
L'opera più grave e veramente terribile è quella di calare il minerale fino al basso della valle. Ne colmano certi cassoni quadrati che posano sulle sbarre di una slitta. Un peso enorme, ma la strada si avvalla così scoscesa, che a mettere la slitta al sommo del pendio, la gola aperta ne farebbe una boccata. Perciò altro non occorre che guidarla perchè non piombi e disperda il carico. Se la miniera fosse in continuo esercizio, correrebbero giù per la china i grossi tubi capaci d'inghiottire in un'ora il prodotto di ogni giornata; ma chi arrischia spese durevoli nell'alterna vicenda degli abbandoni e delle riprese?
La strada non è che un gran solco lungo la costa. Seguendo il principio che la linea retta è la più breve che possa correre fra due punti, essa sdegna gli addolcimenti dei rigiri e si avventa a valle diritta come una frecciata. Se non che di quando in quando la costa rompe in precipizi smisurati e allora la strada che piombò a perpendicolo fino sul margine dell'abisso, fa una svoltata improvvisa ad angolo retto, orla il sommo del dirupo e risvolta verso il basso appena trova una pendenza che basti a starci ritto un uomo avvezzo alla montagna. Messo per quella china e spinto dalla slitta carica, un mulo ne avrebbe, al primo viaggio, rotte le gambe e fiaccato il filo delle reni; perciò vi attaccano uomini che per bestie da soma sono meno costosi. A ogni mulo morto, corrono marenghi, ad ogni uomo morto, basta una croce di legno e un De-profundis.
Io non credo si possa immaginare, non dico un lavoro , chè la parola è troppo mite ed onesta, ma un supplizio peggiore di quello che sopportano quei disgraziati. I grossi pesi macinarono il suolo sassoso, cosicchè vi si affonda fino al ginocchio in una polvere nera, finissima che soffoca, accieca e morde la pelle.
I portatori si attaccano alla slitta appoggiando la schiena al cassone colmo di minerale: abbrancano solidamente le due sbarre, irrigidiscono le gambe e si slanciano nella voragine. Il loro corpo fa, precipitando, una linea quasi orizzontale, quasi parallela al terreno, tanto che, la palma del piede non tocca mai la terra; vi affondano invece il calcagno e menano le gambe rigide come stantufi. – A mano a mano che scendono, la corsa invelocisce; il peso gravissimo, che al piano non smoverebbero in quattro, li schiaccia e li travolge, l'abisso li attira: sentono nelle orecchie l'uragano delle corse sfrenate e ai polsi il martello del sangue sbattuto; hanno negli occhi la visione lampeggiante della vertigine e nelle fauci il picchiettare della polvere filtrata attraverso le labbra e i denti serrati. Vanno colla brutale inerzia della gravità, angosciosamente intenti alle croci di legno che segnano le svoltate. Ma quelle croci, non sorgono per indicare il cammino, bensì per consacrare il punto donde altri prima di loro piombò nell'abisso smisurato, donde essi piomberanno un giorno, forse oggi stesso, forse fra pochi istanti.
Così la massa informe rovina a valle, e quando vi giunge, l'uomo par moribondo. Scaricato il minerale e ripreso fiato, eccolo un'altra volta su per l'erta, tirandosi dietro la slitta. – Fanno per lo più due corse al giorno, ma non durano un pezzo al mestiere.
Io feci una volta con parecchi amici l'esperimento di quei veicoli. La salita fino alla miniera era durata quattro ore di buon cammino: ne scendemmo in venti minuti. Ma non ci tornerei, nè consiglio ad altri la prova. Pericolo vero non c'è (la slitta carica di quattro uomini, pareva un fuscello a quell'Ercole avvezzo a reggerla carica di ferro), ma c'è l'esagerata apparenza del pericolo, locchè, lì per lì, è la stessa cosa. Non mi riesce di ricordare nè l'aspetto delle montagne intorno, nè quello dei punti più paurosi, nè l'impressione ricevuta dalla velocità, nè di darmi giusto conto di questa. Rammento invece, per quanto fu lungo il tragitto, lo stato disgustoso dell'animo mio e l'immobilità e il silenzio di tutti.
E rammento pure che giunti al fondo, avevamo tutti le mani, il viso, il collo, neri come carbone e grigio di polvere, malgrado le vestimenta, il resto del corpo, e che per tornarci al pristino colore, ci vollero tre giorni di frequenti ed abbondanti lavature.
STORIA DI GUGLIELMO RHEDY
Guglielmo Rhedy era nativo di Gressoney-la-Trinité, dove abitava una casa sulla sinistra del torrente Lys, poco più in basso del punto donde si dipartono le due strade del Col d'Ollen verso Alagna, e della Betta Forca verso la valle di Ajaz. Quella casa, come è l'uso del paese, era composta di due piccole casette in forma di padiglione, unite insieme sulla stessa fronte da un corpo di edifizio basso, nel quale di solito s'apre la porta di entrata, si sviluppa la scala di legno e corre ad ogni piano l'andito che mette alle diverse stanze. Per lo più delle due casette una è destinata al servizio, l'altra all'abitare. Da una parte la stalla, la cucina, il fienile, un'officina da falegname e le camere dei domestici; dall'altra le camere da letto ed un salone a terreno, dove il padrone l'estate riceve i conoscenti intorno ad una delle due tavole bislunghe che vi stanno disposte parallele come nelle osterie.
La famiglia vive a terreno nella stalla o nel salone, secondo le stagioni, e diffatti questi due membri mostrano lo studio minutissimo che presiedette al loro ordinamento. Delle stalle quali noi le conosciamo alla piana, quelle di lassù non hanno che il dolce penetrante calore e la morbida atmosfera. Non vi si vede un palmo di muro; tutte le pareti e la strombatura della porta e delle finestre sono rivestite di tavole commesse in modo che i nodi e le venature delle assi combinino simmetricamente. Dei regolini sagomati a cornice scompartiscono le pareti ed il soffitto in larghi quadri eguali all'uso svizzero e danno alla stanza un'aria di agiatezza accurata. Tutto vi è pulito ed ordinato. Un assito, che non giunge al soffitto, taglia la stanza per il suo lungo, impedisce la vista delle vacche e permette che il calore del loro fiato s'allarghi attraverso il vano lasciato in alto. Bisogna vedere che mondezza di stalla; la più nervosa e schifiltosa signora delle città accetterebbe di dormirvi senza arricciare il naso. Nemmeno il sospetto di puzzo o di tanfo, anzi un buon odore di fieno e di latte caldo che fa allargare le narici per aspirarlo voluttuosamente. Un ruscello d'acqua limpidissimo spazza continuamente ogni lordura e la mena all'aperto in una larga fossa donde filtra concime nei prati che attorniano la casa.
Quella gente industriosa e calma nella lunga stagione d'inverno lavora sempre a migliorarsi il nido con minutezza infantile. Ogni nuovo bisogno, ogni nuovo capriccio suggerisce nuovi artifizi sottilissimi che accusano un ingegno stretto, un amore sviscerato della casa, un bisogno continuo di operosità ed una grande ricchezza di tempo. Ogni inverno scava nelle pareti qualche nuovo ripostiglio, vi nasconde qualche tavola o piano che s'abbassa a volontà e si richiude senza più apparire, qualche braccio di legno che si allunga per sostenere matasse di filo, pezzuole, panni, lucerne, e si ripiega in se stesso e rientra nell'assito lasciandolo liscio come prima; ordisce qualche congegno misterioso ed intricato per aprir le finestre o per dar fieno alle vacche senza muoversi da sedere: aggiunte e migliorie che hanno l'aria di trastulli, e lo sono veramente, e formano l'orgoglio dei padroni e fanno sorridere i visitatori.
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