Anton Barrili - Il ritratto del diavolo

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Tuccio di Credi rispose con un cenno d'assentimento a quell'ultima parte del discorso di mastro Jacopo.

–Mi congratulo con voi, maestro,—disse egli,—e mi congratulo con gli sposi. Quando si faranno le nozze?

–Tra due mesi,—rispose mastro Jacopo,—quando il vostro compagno avrà condotto a termine un'opera testè incominciata nel Duomo vecchio. Desidero che impariate da ciò, ragazzi; desidero che impariate a lavorare di buona voglia. Spinello Spinelli è l'ultimo venuto, ed eccolo già molto innanzi a tutti voi. Non ve l'abbiate per male.

–Perchè dovremmo avercelo a male?—chiese Tuccio di Credi, stringendosi nelle spalle con aria di profonda noncuranza.—Chi è da più degli altri ha ragione di stimarsi fortunato. A noi basterà che voi non ci togliate la vostra benevolenza.

–L'avete, andate là;—rispose mastro Jacopo, col suo piglio tra il burbero e il faceto;—sebbene qualche volta mi facciate disperare, da quei ragazzacci che siete. A domenica, dunque, e preparate le vostre più belle canzoni. Si starà allegri.—

Tuccio di Credi salutò gli astanti e se ne andò verso l'uscio.

Quel giorno Tuccio di Credi era rimasto l'ultimo in bottega. E a lui era toccato di ricevere Luca Spinelli, venuto a quell'ora insolita e con aria misteriosa a cercare mastro Jacopo. A lui, proprio a lui, era toccato di aver le primizie di quell'annunzio matrimoniale, altrettanto doloroso quanto inaspettato.

Tuccio di Credi non sapeva che pensare; non sapeva che dire; aveva perduta la testa. Poco mancò che dimenticasse perfino di chiudere la bottega. Escito di là, andò macchinalmente per le vie d'Arezzo, fino all'osteria del Greco, dove c'era la combibbia serale dei garzoni di mastro Jacopo. Aveva una faccia così scura, che i suoi compagni lasciarono tosto di ridere, per domandargli se si sentisse male.

–Vuoi un confortino? Un cordiale? Un lattovaro?—gli disse il Chiacchera.—Prendi questo; è Montepulciano, e il Greco giura di non averlo annacquato.—

Tuccio di Credi ricusò brevemente, col gesto, il bicchiere che gli offriva il Chiacchiera.

–Sapete la novella?—disse egli.

–Quale novella?—chiese Cristofano Granacci.

–Se non la spifferi, come possiamo saperla?—soggiunse il

Chiacchiera.

Tuccio di Credi rimase un momento sopra di sè, come se volesse raccogliere le proprie forze; indi, con voce sepolcrale, diede il triste annunzio ai compagni:

–Spinello Spinelli, l'ultimo venuto a bottega, sposa la figlia di mastro Jacopo.—

Un grido di meraviglia accolse le parole di Tuccio.

–Come lo sai?—domandò il Chiacchiera.

–Lo so da mastro Jacopo, che c'invita per domenica alla festa degli sponsali e ci raccomanda di preparare le nostre più belle canzoni.

–Oh, le avrà!—disse il Chiacchiera.—Ti assicuro io che le avrà. Un così bel matrimonio! Ci vorranno anche i giullari!

–Già,—osservò tranquillamente Parri della Quercia,—dovevamo immaginarcelo.

–Immaginarcelo! E perchè?—disse Tuccio di Credi.

–Perchè era facile di scorgere che mastro Jacopo vedeva assai di buon occhio Spinello Spinelli.

–Come scolaro, non nego;—ribattè Tuccio di Credi.—Mastro Jacopo ha le sue debolezze, come le ha avute sant'Antonio. Ma neanche sant'Antonio ha portato il suo protetto in paradiso. E non era da immaginare che mastro Jacopo dovesse dare sua figlia a Spinello Spinelli. Sapete che già gliel'avevano domandata parecchi: tra gli altri il Buontalenti, che è un ricco sfondato.

–È vero;—disse Parri della Quercia;—ma tu ricorderai per qual ragione mastro Jacopo non gliel'ha voluta dare. Egli ha sempre detto che la sua Fiordalisa avrebbe sposato uno dell'arte sua. Spinello Spinelli è un pittore; dunque….

–Adagio, Biagio!—entrò a dire il Chiacchiera.—Spinello Spinelli è un mastro Imbratta, finora, un fattore come noi altri, e non può neanche misurarsi con te, Parri della Quercia, che hai già fatto un trittico a tempera, e n'hai avuto lode dagli intendenti.—

Parri della Quercia sorrise e ringraziò con un cenno del capo.

–Ma infine,—diss'egli di rimando,—se non ha anche dipinto a tempera, non si può tuttavia bollarlo col titolo di mastro Imbratta. Rammentate i suoi tocchi in penna.

–Ah sì, bella forza!—gridò il Chiacchiera.—Come se quella fosse arte! Il pittore s'ha a vederlo sulla tavola.

–O sul muro;—soggiunse Parri.—Spinello Spinelli può dirsi oramai un frescante. Mastro Jacopo gli ha dato a fare qualche cosa sulle sue ultime composizioni.

–Sì, gli ha dato da calcare i suoi cartoni sul muro e da mettere il colore sui fondi.

–Ahimè, dell'altro ancora, dell'altro;—entrò a dire Tuccio di Credi.

–Dell'altro? Che cosa?

–Gli ha dato da dipingere un'intera medaglia nel Duomo vecchio. Mi capite? un'intera medaglia. E Spinello ha ideata lui la composizione, ha fatto lui il cartone, tutto lui! Ma non potrebbe anche darsi che il maestro avesse ritoccato il disegno, data l'intonazione del bozzetto e via via?

–Non c'è dubbio;—esclamò il Chiacchiera.—E fors'anche avrà ideata la composizione.

–È possibile,—ripigliò Tuccio di Credi.—Tutto si può credere,-perchè il lavoro si fa in Duomo, sulle impalcature, dove il maestro non ha più voluto vedere nessuno di noi.

–Gatta ci cova!—sentenziò Cristofano Granacci.—Intanto eccolo pittore. E che lavoro è, quello che fa, il sornione?

–Un San Donato che ammazza il serpente con una benedizione;—rispose

Tuccio di Credi.

–Tu l'hai veduto?

–Io no, l'ho risaputo dallo scaccino della chiesa. Ma su questo non ho a dirvi di più;—soggiunse Tuccio, già quasi pentito di aver toccato quel tasto.

Ma gli altri non avevano bisogno di più estesi particolari, e non ci badarono neanco. Erano su tutte le furie, e non ci vedevano lume.

–Ah! è troppo!—gridò Lippo del Calzaiolo.—Mastro Jacopo ci ha i suoi beniamini. Se avesse adoperato egualmente con noi! Se ci avesse consigliati, aiutati, messi avanti, saremmo pittori anche noi. Bella forza! fare il lavoro d'uno scolaro e poi gabellarlo per pittore! E non si fa celia; pittore frescante! Purchè i massari del Duomo gli lascino passar la burletta!

–Che cosa ha da importarne ai massari?—disse Tuccio di Credi.—Se l'opera piacerà, non andranno a cercare cinque piedi al montone.

–E noi lasagnoni! Noi buoni a nulla!—gridò Cristofano Granacci.—Ah, caro e riverito mio mastro Jacopo di Casentino, dite che non son più io, se non vi pianto lì su' due piedi.

–O su quanti vorresti piantarlo?—domandò il Chiacchiera, che non rinunciava mai all'occasione di metter fuori una celia.

–Dico che me ne vado,—urlò il Granacci,—posso allogarmi a Firenze dal Giottino, o a Siena dal Berna, che tutt'e due mi vogliono.

–Per che fare?

–Quello che tu non farai, Tuccio, se pure tu campassi mill'anni:—ribattè il Granacci.

–Via, non ci guastiamo il sangue;—entrò a dire Lippo del Calzaiolo.—Cristofano ha ragione, ed io seguirò il suo esempio; me ne andrò a bottega da Agnolo Caddi, in Firenze. Tanto qui non s'impara nulla.

–È vero, questo;—notò il Chiacchiera.—Mastro Jacopo ha l'aria di tenerci per misericordia, come si tengono gl'infermi all'ospedale. Non c'è che Spinello, in Arezzo! E a lui concede anche la mano di sua figlia. Questa, poi, è grossa. Di che diamine s'è innamorato?

–Forse del ritratto che Spinello ha inteso di fare a madonna Fiordalisa:—osservò Lippo del Calzaiolo.

–Almeno sapesse farli i ritratti!—esclamò il Granacci.—I quattro segni d'un tocco in penna a me mi servono poco. In un'opera grande, voglio vederlo.

–Lo vedrete nel San Donato;—disse Parri della Quercia.

–Ma se non è suo!—rispose il Granacci.—Lo vogliamo giudicare da un'opera fatta da lui sotto i nostri occhi, non già in un affresco di mastro Jacopo, gabellato per suo.

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