Volodyk - Paolini2-Eldest
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Orik lo aiutò a issarsi sulla zattera. «Li chiamiamo Fanghur. Non sono intelligenti come i draghi, e non possono sputare fuoco, ma restano pur sempre combattenti formidabili.»
«L'abbiamo visto.» Eragon si massaggiò le tempie per alleviare il mal di testa provocato dall'attacco dei Fanghur. «Ma con Saphira non avevano scampo.»
Naturale, si vantò lei.
«È così che cacciano» spiegò Orik. «Usano la mente per immobilizzare la preda mentre la uccidono.» Saphira schizzò Eragon con un guizzo di coda. £ una buona idea. Me ne ricorderò la prossima volta che vado a caccia. Lui annuì. Potrebbe tornarci utile anche in battaglia.
Arya si avvicinò al bordo della zattera. «Sono lieta che non li abbiate uccisi. I Fanghur sono così rari che sarebbe stato un peccato eliminare quei tre.»
«Ne restano comunque abbastanza da decimare il nostro bestiame» brontolò Thorv dall'interno della cabina. Il nano uscì e si diresse verso Eragon, borbottando sotto la massa intricata della barba. «Non andate più a volare mentre siamo ancora fra i Monti Beor, Ammazzaspettri. Già è difficile proteggerti, senza che tu e il tuo drago vi azzuffiate con le vipere del cielo.»
«Resteremo a terra finché non raggiungeremo le pianure» promise Eragon.
«Bene!»
Quando si fermarono per la notte, i nani ormeggiarono le zattere ad alcuni pioppi che crescevano sulla bocca di un piccolo affluente. Ama accese un falò, mentre Eragon aiutava Ekksvar a sbarcare Fiammabianca. Legarono lo stallone in una zona erbosa.
Thorv controllò l'allestimento di sei grandi tende. Hedin raccolse tanta legna da poter alimentare il fuoco fino al mattino. Dùthmér andò a prendere le provviste sulla seconda zattera e si accinse a preparare la cena. Arya montò di guardia ai margini dell'accampamento, dove ben presto fu raggiunta da Ekksvar, Ama e Trìhga, che avevano finito di svolgere le altre mansioni.
Eragon si accorse di non avere niente da fare, così andò ad accovacciarsi davanti al falò, in compagnia di Orik e Shrrgnien. Quando Shrrgnien si tolse i guanti per avvicinare le mani deformi al fuoco, Eragon notò che da ciascuna nocca, tranne che dai pollici, spuntava un chiodo di lucido acciaio lungo all'incirca un quarto di pollice. «Cosa sono?» domandò.
Shrrgnien guardò Orik e rise. «Sono i miei Ascùdgamln, i miei pugni d'acciaio.» Senza alzarsi, girò il busto e sferrò un pugno al tronco di un pioppo, lasciando quattro fori simmetrici nella corteccia. «Comodi per colpire, eh?» La cosa suscitò la curiosità e l'invidia di Eragon. «Come sono fatti? Voglio dire, i chiodi, come sono attaccati alle mani?»
Shrrgnien esitò, cercando di trovare le parole giuste. «Un guaritore ti fa cadere in un sonno profondo, per non farti sentire dolore. Poi ti vengono... trapanate, giusto?... trapanate le articolazioni e...» S'interruppe e si rivolse a Orik nel linguaggio dei nani, parlando fitto fitto.
«In dascun foro viene inserito un dado di metallo» spiegò Orik, «che viene sigillato nella carne con la magia. Quando il guerriero si è completamente ristabilito, nei dadi si possono avvitare chiodi di diversa misura.»
«Già, guarda» disse Shrrgnien con un sogghigno. Afferrò il chiodo dell'indice sinistro e lo svitò lentamente, poi lo porse a Eragon.
Eragon sorrise mentre soppesava il pezzo di metallo acuminato nel palmo della mano. «Non mi dispiacerebbe avere questi pugni d'acciaio.» Restituì il chiodo a Shrrgnien.
«È un'operazione pericolosa» lo ammonì Orik. «Sono ben pochi i knurlan che si fanno impiantare gli Ascùdgamln, perché c'è il rischio di perdere l'uso della mano, se il trapano arriva troppo in profondità.» Levò un pugno e lo mostrò a Eragon. «Le nostre ossa sono più robuste delle vostre. Potrebbe non funzionare per un umano.» «Me lo ricorderò.» Ma Eragon non potè fare a meno di immaginare come si sarebbe sentito a combattere con gli Ascùdgamln, a poter colpire qualsiasi cosa senza correre rischi, persino le armature degli Urgali. L'idea lo solleticava. Dopo mangiato, Eragon si ritirò nella sua tenda. La luce del falò all'esterno gli consentiva di vedere la sagoma di Saphira accucciata accanto alla tenda, come una figura ritagliata da un foglio nero e incollata alla parete di tela. Eragon si sedette con le coperte tirate sulle gambe e si guardò in grembo, assonnato: non aveva ancora voglia di addormentarsi. Libera di pensare, la sua mente cominciò a vagare fra i ricordi di casa. Eragon si domandò che cosa stessero facendo Roran, Horst e gli altri abitanti di Carvahall, e se il tempo nella Valle Palancar fosse abbastanza mite da permettere ai contadini di dare inizio alla semina. Lo pervase una profonda tristezza e sentì nostalgia di casa. Prese una ciotola di legno dallo zaino e la riempì fino all'orlo con l'acqua versata dalla borraccia. Poi si concentrò su un'immagine di Roran e mormorò: «Draumr kópa.»
Come sempre, l'acqua prima divenne nera per poi illuminarsi e rivelare la persona o la cosa da divinare. Eragon vide Roran seduto da solo in una stanza da letto illuminata dalla fiamma di una candela. Eragon riconobbe la casa di Horst. Roran deve aver lasciato il suo lavoro a Therinsford, pensò. Suo cugino aveva la schiena curva, i gomiti appoggiati sulle ginocchia, e fissava il muro con espressione corrucciata, segno di qualche grave problema. Eppure sembrava sano, anche se un po' stanco, ed Eragon si sentì rincuorato. Dopo un minuto, dissolse l'incantesimo e l'acqua tornò limpida.
Confortato, vuotò la ciotola, poi si sdraiò, tirandosi le coperte fino al mento. Chiuse gli occhi e si lasciò cullare nel tiepido sopore che separa la veglia dal sonno, dove la realtà si piega e ondeggia al flusso dei pensieri, e la fantasia sboccia in tutta libertà, svincolata dalla materia, e tutto è possibile.
Il sonno lo vinse. Dormì tranquillo, ma poco prima di destarsi, i soliti fantasmi notturni furono sostituiti da una visione non meno chiara e vibrante che se fosse stato sveglio.
Vide un cielo tormentato, nero e cremisi di fumo. Corvi e aquile volteggiavano sopra nugoli di frecce che volavano da un lato all'altro di due schieramenti in battaglia. Un uomo annaspava nel fango con l'elmo ammaccato e l'armatura insanguinata, il volto celato da un braccio alzato.
Una mano guantata d'acciaio entrò nella visuale di Eragon,
tanto vicina da oscurare metà del mondo con lo scintillio del metallo. Come una macchina inesorabile, il pollice e le ultime tre dita si chiusero a pugno, lasciando l'indice teso verso l'uomo riverso, implacabile e crudele come il fato. La visione era ancora vivida nella mente di Eragon quando sgusciò fuori dalla tenda. Trovò Saphira a una certa distanza dall'accampamento, intenta a masticare una massa pelosa. Quando le raccontò cosa aveva visto, la dragonessa smise di masticare, poi inarcò il collo e inghiottì il boccone ancora intero.
L'ultima volta che ti è successo, disse lei, si è rivelata un'esatta predizione di eventi che si svolgevano altrove. Credi che ci sia una battaglia in corso in Alagaè'sia?
Lui tirò un calcio a un rametto spezzato. Non ne sono sicuro... Brom disse che si possono divinare soltanto persone, luoghi e cose che uno ha già visto. Eppure quel luogo non l'ho mai visto. Né avevo mai conosciuto Arya quando la sognai la prima volta a Teirm. Magari Togira Ikonoka saprà darci una spiegazione.
Mentre si preparavano alla partenza, i nani sembravano molto più tranquilli ora che avevano messo una discreta distanza fra loro e Tarnag. Quando cominciarono a navigare lungo l'Az Ragni, Ekksvar - che timonava la zattera di Fiammabianca - cominciò a cantare con la sua roca voce da basso:
Lungo la corrente impetuosa
Del sangue spumeggiante di Kilf,
Cavalchiamo i legni ondeggianti,
Per la patria, il clan e l'onore.
Sotto il dominio delle aquile, Nelle foreste dei lupi di montagna
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