Volodyk - Paolini2-Eldest
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Eragon rabbrividì. La città era innaturalmente deserta. Le porte erano sprangate, le finestre chiuse, e i pochi passanti distoglievano lo sguardo e imboccavano vicoli laterali per evitarlo. Hanno paura di mostrarsi accanto a me, comprese Eragon. Forse perché sanno che gli Az Sweldn rak Anhùin si vendicheranno contro chiunque mi aiuti. Spinto dal desiderio sempre più pressante di togliersi dalla strada troppo esposta, Eragon alzò una mano per bussare, ma le sue nocche non avevano ancora toccato il legno che una porta si aprì verso l'esterno con un lieve cigolìo, e un nano dalla lunga veste nera gli fece cenno di entrare. Stringendosi il cinturone, Eragon entrò, lasciando la scorta ad aspettarlo fuori.
La sua prima impressione fu di colore. Un vasto prato verdeggiante circondava la mole colonnata di Celbedeil, come un arazzo adagiato sulla collina simmetrica da cui svettava il tempio. L'edera rampicante strangolava le antiche mura dell'edificio con lunghi tentacoli barbati, le foglie appuntite scintillavano di rugiada. E a dominare su tutto il resto, tranne che sulle montagne, sorgeva la grande cupola bianca dalle coste in rilievo d'oro cesellato. L'impressione successiva fu l'odore. Fiori e incenso mescolavano le proprie fragranze in un aroma così etereo da dare a Eragon la sensazione che avrebbe potuto vivere solo di quel profumo.
L'ultima fu il suono, o meglio, la sua assenza, poiché sebbene gruppi di sacerdoti passeggiassero lungo i vialetti a mosaico e i vasti piazzali, l'unico rumore che Eragon udì fu il fievole frullo d'ali di un corvo nero che volava in alto. Il nano gli fece un altro cenno e s'incamminò lungo il viale principale che portava a Celbedeil. Nel passare sotto i cornicioni, Eragon non potè che ammirare la profusione di ricchezze e la maestria con cui erano stati costruiti. Le mura erano tempestate di gemme di ogni colore e taglio tutte purissime - e nelle venature che screziavano i soffitti, il pavimento e le mura di pietra erano state martellate lamine d'oro rosso, intervallate da perle lucenti e borchie d'argento. Più di una volta oltrepassarono paraventi fatti interamente di giada intagliata.
Il tempio era privo di ornamenti in tessuto. In compenso, i nani avevano scolpito un'abbondanza di statue, perlopiù creature mostruose e divinità impegnate in epiche battaglie.
Dopo aver risalito diversi livelli, varcarono una porta coperta di verderame, con una serie di nodi intricati e complessi lavorati a sbalzo, per entrare in una sala vuota dal pavimento di legno. Le pareti erano coperte di armature e rastrelliere stipate di lunghe aste di legno con una lama a ciascuna estremità, identiche a quella che Angela aveva usato per combattere nel Farthen Dùr.
Nella sala c'era Gannel, impegnato ad allenarsi al combattimento con tre nani più giovani. Il capoclan aveva la veste raccolta intorno alle cosce per potersi muovere liberamente, il volto una maschera di concentrazione mentre faceva roteare il bastone, le lame smussate che guizzavano come calabroni infastiditi.
Due nani si lanciarono verso Gannel, ma furono bloccati in un clangore di legno e metallo, mentre il sacerdote piroettava colpendogli le ginocchia e la testa, spedendoli a terra. Eragon sorrise guardando Gannel che disarmava l'ultimo avversario con un'elegante sequenza di colpi.
Finalmente il capoclan notò Eragon e congedò gli altri nani. Mentre Gannel riponeva l'arma sulla rastrelliera, Eragon gli domandò: «Tutti i Quan sono così esperti nelle arti marziali? È strano che i sacerdoti coltivino questa pratica.» Gannel si volse. «Dobbiamo essere capaci di difenderci, non credi? Molti nemici calpestano questa terra.» Eragon annuì. «Queste sono armi molto singolari. Non ne ho mai viste di simili, tranne che nella battaglia del Farthen Dùr, in mano a un'erborista.»
Il nano trattenne il fiato, poi lo liberò con un sibilo a denti stretti. «Angela.» La sua espressione si fece torva. «Vinse il bastone a un sacerdote in una gara di indovinelli. Fu un trucco sleale, dato che noi siamo gli unici ad aver diritto di usare gli hùthvìrn. Lei e Arya...» Scrollò le spalle e si diresse a un tavolinetto dove riempì due boccali di birra. Porgendone uno a Eragon, disse: «Ti ho invitato qui, oggi, su richiesta di Rothgar. Mi ha detto che se tu avessi accettato la sua offerta di entrare a far parte dell'Ingietum, io avrei dovuto insegnarti le tradizioni dei nani.» Eragon sorseggiò la birra e tacque, osservando come la fronte sporgente di Gannel coglieva la luce, proiettando scure ombre sugli zigomi.
Il capoclan proseguì. «A nessuno straniero sono mai state rivelate le nostre segrete credenze, né potrai mai parlarne con umano o elfo. Ma senza questa conoscenza, non potresti mai comprendere cosa significa essere knurla. Ora sei un Ingietum: il nostro sangue, la nostra carne, il nostro onore. Capisci?»
«Sì.»
«Vieni.» Con il boccale in mano, Gannel condusse Eragon fuori dalla sala di allenamento; percorsero cinque ampi corridoi e si fermarono sotto un arco che affacciava su una stanza dalla fioca illuminazione, satura di fumi d'incenso. Davanti a loro, dal pavimento al soffitto si ergeva una poderosa statua col volto cupo scolpito nel granito marrone con insolita crudezza.
«Chi è?» chiese Eragon, intimidito.
«Gùntera, il re degli dei. È un guerriero e un sapiente, ma di umore volubile; per assicurarci la sua benevolenza bruciamo offerte in occasione dei solstizi, prima della semina, alle nascite e alle morti.» Gannel fece uno strano gesto con la mano e s'inchinò alla statua. «È lui che preghiamo prima delle battaglie, poiché fu lui a plasmare questa terra con le ossa di un gigante, e dona al mondo il suo ordine. Tutti i regni appartengono a Gùntera.»
Poi Gannel insegnò a Eragon la maniera corretta per venerare il dio, spiegandogli i segni e le parole da usare. Gli illustrò il significato dell'incenso - simbolo di vita e prosperità - e gli narrò con dovizia di particolari le leggende su Gùntera, raccontandogli come il dio era nato già perfettamente formato da una lupa all'alba dei tempi; come aveva combattuto mostri e giganti per conquistare in Alagaésia una terra per la sua specie; come infine aveva preso Kilf, la dea dei fiumi e del mare, in sposa.
Passarono quindi alla statua di Kilf, che era stata scolpita con grazia squisita nel pallido turchese. I capelli le ricadevano in liquide onde sulle spalle e incorniciavano due occhi di brillante ametista. Nelle mani a coppa teneva un giglio d'acqua e un ramo di roccia rossa porosa che Eragon non riconobbe.
«Cos'è?» domandò indicando.
«Corallo raccolto dal mare che bagna i Monti Beor.»
«Corallo?»
Gannel bevve un sorso di birra, poi disse: «I nostri tuffatori l'hanno trovato mentre cercavano perle. A quanto pare, nell'acqua salata certe pietre crescono come piante.» Eragon lo contemplò, ammirato. Non aveva mai pensato a ciottoli e sassi come creature viventi, eppure lì c'era la prova che bastavano acqua e sale per farli prosperare. Questo finalmente spiegava come mai le rocce continuavano ad affiorare nei loro campi nella Valle Palancar anche quando il terreno veniva dissodato ogni primavera. Crescono!
Proseguirono verso Urùr, dio dell'aria e dei cieli, e suo fratello Morgothal, dio del fuoco. Davanti alla statua rosso carminio di Morgothal, il sacerdote gli narrò che i fratelli si amavano tanto che nessuno dei due poteva vivere senza l'altro. Per questo motivo, nel cielo il Palazzo di Morgothal ardeva di giorno, e le scintille della sua forgia comparivano ogni notte. E sempre per la stessa ragione Urùr alimentava costantemente suo fratello per non farlo morire. Mancavano soltanto altre due statue: Sindri - madre della terra - ed Helzvog.
La statua di Helzvog era diversa dalle altre. Il dio nudo era chino su un masso di silice grigia, delle dimensioni di un nano, e lo sfiorava con la punta dell'indice. I muscoli della schiena erano tesi e gonfi di fatica sovrumana, eppure la sua espressione era incredibilmente tenera, come se davanti a lui ci fosse un neonato.
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