Volodyk - Paolini2-Eldest

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Orik si sfilò lo zaino dalle spalle, si sedette appoggiato a un pilastro ed estrasse la sua ascia, che cominciò a rigirarsi fra le mani. Dopo qualche minuto, guardò infuriato Tronjheim e sbottò: «Barzul knurlar! Dove si sono cacciati? Arya ha detto che sarebbe venuta subito. Ha! Gli elfi hanno un concetto molto elastico del tempo.»

«Li conosci da molto?» domandò Eragon, accovacciandosi accanto a lui. Saphira osservava la scena con interesse. Il nano scoppiò a ridere. «Età. Ho conosciuto soltanto Arya, e sempre in maniera sporadica perché viaggiava spesso. In settantanni ho imparato soltanto una cosa su di lei: non puoi mettere fretta a un elfo. È come prendere a martellate una lima: magari si spezza, ma non si piega.»

«Ma i nani, non sono anche loro così?»

«Già, ma la pietra col tempo può cambiare.» Orik sospirò e scosse il capo. «Fra tutte le razze, gli elfi sono quelli che cambiano meno, ragion per cui non ho molta voglia d'incontrarli.»

«Ma pensa, conosceremo la regina Islanzadi e vedremo

Ellesméra e chissà cos'altro! Quand'è stata l'ultima volta che un nano è stato invitato nella Du Weldenvarden?» Orik si accigliò. «La bellezza dei luoghi non significa niente. Questioni urgenti riguardano Tronjheim e le nostre altre città, ma a me tocca andare dall'altro capo di Alagaésia per scambiare convenevoli e assistere al tuo addestramento, ingrassando per l'ozio. Potrebbero volerci anni!»

Anni!... Ma se necessario alla sconfitta degli Spettri e dei Ra'zac, lo farò.

Saphira gli toccò la mente. Dubito che Nasuada ci permetterà di restare a Ellesméra più di qualche mese. Considerato quanto ha detto, ci sarà bisogno di noi molto presto.

«Finalmente!» esclamò Orik, alzandosi in piedi.

Stava arrivando Nasuada - le pantofoline ricamate che spuntavano dall'orlo della veste come topolini che si affacciano dalla tana - insieme a Jòrmundur e Arya, che portava uno zaino simile a quello di Orik. Indossava lo stesso completo di pelle nera con cui Eragon l'aveva vista la prima volta, e aveva con sé la spada.

All'improvviso Eragon si rese conto che Arya e Nasuada avrebbero potuto non approvare il fatto che si fosse legato all'Ingietum. Un profondo senso di colpa e di trepidazione lo pervase nel riconoscere che sarebbe stato suo dovere consultarsi prima con Nasuada. E Arya! Fece una smorfia al ricordo di come lei si era arrabbiata dopo il suo primo incontro con il Consiglio degli Anziani.

Quando Nasuada si fermò davanti a lui, Eragon evitò il suo sguardo, imbarazzato. Ma lei disse soltanto: «Hai accettato.» Il suo tono era cortese, controllato.

Lui annuì, con gli occhi ancora bassi.

«Mi chiedevo se l'avresti fatto. Ancora una volta, ti trovi vincolato a tutte e tre le razze. I nani possono rivendicare la tua alleanza in qualità di membro del Dùrgrimst Ingietum, gli elfi ti addestreranno e ti plasmeranno - e la loro influenza probabilmente sarà la più forte, poiché tu e Saphira siete legati dalla loro magia - e hai giurato fedeltà a me, un'umana... Tutto sommato, credo sia un bene che tutti noi condividiamo la tua lealtà.» La giovane accolse lo stupore di Eragon con uno strano sorriso, poi gli mise in mano un sacchetto di monete e si fece da parte.

Jòrmundur gli tese la mano ed Eragon ricambiò la stretta, ancora piuttosto confuso. «Buon viaggio, Eragon. Abbi cura di te.»

«Andiamo» disse Arya, oltrepassandoli per immergersi nelle tenebre del Farthen Dùr. «È tempo di partire. Aiedail è tramontata, e ci aspetta un lungo cammino.»

«Pronti» disse Orik, ed estrasse una lanterna rossa da una tasca laterale dello zaino.

Nasuada li guardò ancora una volta. «Molto bene. Eragon e Saphira, vi accompagni la benedizione dei Varden, come anche la mia personale. Vi auguro un viaggio tranquillo. Ricordate, con voi portate il peso delle nostre speranze e delle nostre aspettative, perciò fatevi onore.»

«Faremo del nostro meglio» promise Eragon.

Con le redini di Fiammabianca saldamente in pugno, Eragon si avviò dietro Arya, che era già avanti di parecchie iarde. Orik lo seguì, e infine Saphira. Nel passare accanto a Nasuada, la dragonessa si fermò un istante per leccarle la guancia. Poi allungò il passo e li raggiunse.

A mano a mano che si allontanavano verso nord, il cancello alle loro spalle rimpiccioliva sempre di più, finché non rimase che uno spiraglio di luce su cui si stagliavano le due sagome nere di Nasuada e Jòrmundur fermi sulla soglia. Quando alla fine raggiunsero la base del Farthen Dùr, trovarono una porta gigantesca - alta trenta piedi - con i battenti spalancati. I tre nani di guardia s'inchinarono e si fecero da parte. Oltre la porta cominciava un tunnel di analoghe proporzioni, fiancheggiato da colonne e lanterne per i primi cinquanta piedi. Il resto era vuoto e silenzioso come un mausoleo.

Era identico all'ingresso occidentale del Farthen Dùr, ma Eragon sapeva che quel tunnel era diverso: invece di scavarsi la strada per oltre un miglio nel fianco del Farthen Dùr per emergere all'esterno, proseguiva sotto terra di montagna in montagna, fino alla città di Tarnag.

«Ci siamo» disse Orik, sollevando la lanterna.

Lui e Arya varcarono la soglia, ma Eragon esitò, pervaso da un'improvvisa incertezza. Anche se non aveva paura del buio, lo turbava il pensiero di trovarsi immerso in una notte eterna finché non fossero arrivati a Tarnag. Una volta entrato nel tunnel, si sarebbe di nuovo avventurato fra le braccia dell'ignoto, abbandonando le poche cose cui si era abituato fra i Varden, in cambio di un destino incerto.

Cosa c'è? gli chiese Saphira.

Niente.

Trasse un profondo respiro e riprese il cammino, lasciando che la montagna lo inghiottisse nelle sue viscere.

Falci e forconi

Tre giorni dopo l'arrivo dei Ra'zac, Roran camminava avanti e indietro ai margini del suo piccolo accampamento sulla Grande Dorsale, in preda a una forte inquietudine. Non aveva avuto più notizie dalla visita di Albriech, né gli era possibile carpire informazioni dal suo punto di osservazione su Carvahall. Scoccò un'occhiata furente alle tende lontane dove dormivano i soldati, poi riprese a camminare.

A mezzogiorno consumò un magro pasto freddo. Asciugandosi la bocca col dorso della mano, si domandò: Ma quanto intendono aspettare i Ra'zac? Se era una gara di pazienza, era deciso a vincerla.

Per ammazzare il tempo, si esercitò al tiro con l'arco contro un tronco marcio, fermandosi solo quando una freccia s'infranse contro una pietra incastrata nel legno. A quel punto non gli rimase altro da fare che ricominciare a marciare avanti e indietro lungo l'arido sentiero che andava da un grosso masso fino al punto in cui dormiva. A un tratto sentì un rumore di passi provenire dalla foresta sottostante. Afferrò l'arco e si nascose in attesa. Con grande sollievo accolse la comparsa della faccia di Baldor tra il fogliame. Roran gli fece cenno di avvicinarsi. Si sedettero a terra e Roran gli chiese: «Perché non è più venuto nessuno?»

«Non potevamo» rispose Baldor, asciugandosi la fronte imperlata di sudore. «I soldati ci stanno addosso. Oggi è stata la prima volta che ho avuto occasione di svignarmela.

Ma non posso trattenermi a lungo.» Alzò lo sguardo verso il picco che torreggiava su di loro e rabbrividì. «Sei molto più coraggioso di me, a restare qui. Hai avuto problemi con gli orsi, i lupi o i puma?»

«No, no, sto bene. Novità sui soldati?»

«Uno di loro, l'altra sera, si è vantato con Morn che ogni elemento della loro squadra è stato selezionato con cura per questa missione.» Roran aggrottò la fronte. «Non sono tipi tranquilli, sai... Almeno due o tre si ubriacano ogni sera. Il primo giorno alcuni hanno distrutto la sala comune di Morn.»

«Hanno pagato i danni?»

«Ma figurati!»

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