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Mikhail Bulgakov: Il Maestro e Margherita

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Durante quelle evoluzioni, nella testa del procuratore, ridiventata limpida e leggera, era nata una formula: l’egemone ha preso in esame la pratica del filosofo vagabondo Jeshua, soprannominato Hanozri, e non vi ha riscontrato gli estremi del reato. In particolare, non ha trovato il menomo legame tra l’attività di Jeshua e i disordini avvenuti da poco a Jerushalajim. Il filosofo vagabondo è un malato di mente, per cui il procuratore non conferma la condanna a morte di Hanozri emanata dal Piccolo Sinedrio. Ma considerato che i folli discorsi utopistici di Hanozri possono causare disordini a Jerushalajim, il procuratore esilia Jeshua da Jerushalajim e lo fa confinare a Cesarea, sul Mediterraneo, cioè proprio nel luogo di residenza del procuratore.

Rimaneva da dettare questo al segretario.

Le ali della rondine frullarono sopra la testa dell’egemone, l’uccello si slanciò verso la vasca della fontana e volò via. Il procuratore alzò lo sguardo verso il prigioniero e vide che vicino a lui una colonna di pulviscolo riluceva al sole.

— È tutto? — chiese Pilato al segretario.

— No, purtroppo, — rispose inaspettatamente questi, e porse a Pilato un altro pezzo di pergamena.

— Che altro c’è? — chiese Pilato aggrottando la fronte.

Dopo che ebbe letto, il suo volto mutò ancor piú espressione. Un sangue scuro gli affluí al viso e al collo, o qualcos’altro successe, fatto sta che la sua pelle perdette il colore giallognolo, diventò brunastra, e gli occhi sembrarono sprofondare nelle orbite.

La colpa era probabilmente del sangue che era affluito di nuovo alle tempie e vi pulsava, fatto sta che al procuratore si offuscò la vista. Gli sembrò infatti che la testa del prigioniero dileguasse in un punto e che al suo posto ne apparisse un’altra. Su questa testa calva era posata una corona d’oro dalle punte distanziate. Sulla fronte si vedeva una piaga rotonda che corrodeva la pelle ed era unta di unguento. Una bocca infossata, senza denti, dal capriccioso labbro inferiore pendulo. A Pilato sembrò fossero scomparse le rosee colonne del porticato e i tetti lontani di Jerushalajim, e che tutto annegasse nel denso verde dei giardini capresi. Anche al suo udito stava succedendo qualcosa di strano: aveva l’impressione che in lontananza delle trombe suonassero lievi e minacciose, e percepí con grande chiarezza una voce nasale che strascicava arrogantemente le parole: «Legge di lesa maestà…»

Passarono in un lampo pensieri brevi, sconnessi e insoliti. «Sono perduto!…» Poi: «Siamo perduti!…» e un altro ancora, del tutto assurdo tra quelli, su chi sa quale immortalità, un’immortalità che provocava un’angoscia intollerabile. Pilato fece uno sforzo, scacciò la visione, rivolse nuovamente lo sguardo al balcone, e si ritrovò davanti gli occhi del prigioniero.

— Senti, Hanozri, — disse il procuratore guardando Jeshua con una strana espressione: il suo volto era minaccioso, ma gli occhi inquieti, — hai mai parlato del grande Cesare? Rispondi! Ne hai parlato?… O… non… ne hai parlato? — Pilato prolungò la parola «non» alquanto piú di quanto si convenga in tribunale, e lanciò un’occhiata a Jeshua come se volesse suggerirgli un pensiero.

— È facile e grato dire la verità, — osservò l’arrestato.

— Non m’interessa, — ribatté con voce strozzata e cattiva Pilato, — se ti è grato o no dire la verità. Ma tu la dovrai dire. Però dicendola, pesa ogni tua parola se non vuoi una morte non solo inevitabile, ma anche tormentosa.

Nessuno sa che cosa successe al procuratore della Giudea, ma egli si permise di alzare la mano come per proteggersi da un raggio di sole, e dietro quella mano, come al riparo di uno scudo, di lanciare al prigioniero uno sguardo d’intesa.

— Dunque, — disse, — rispondi. Conosci un certo Giuda di Kiriat, e che cosa gli hai detto di preciso su Cesare, semmai gliene hai parlato?

— È andata cosí, — cominciò di buon grado a raccontare il prigioniero, — l’altro ieri, di sera, ho fatto conoscenza vicino al tempio con un giovane che diceva di chiamarsi Giuda, della città di Kiriat. Mi invitò a casa sua nella città bassa e mi offrí da mangiare.

— È un uomo buono? — chiese Pilato, e un fuoco diabolico guizzò nei suoi occhi.

— Un ottimo uomo, desideroso di sapere, — confermò il prigioniero; — espresse il piú vivo interesse per le mie idee, mi accolse con molta cordialità…

— Accese i candelabri… — disse Pilato tra i denti, con lo stesso tono del prigioniero, mentre i suoi occhi scintillavano.

— Proprio cosí, — continuò Jeshua, un po’ stupito di quanto bene informato fosse il procuratore. — Mi chiese che cosa pensassi del potere statale. Questo problema lo interessava moltissimo.

— E che cosa gli dicesti? — s’informò Pilato. — O mi dirai che hai dimenticato ciò che gli dicesti? — ma il tono di Pilato era già scoraggiato.

— Tra l’altro, ho detto, — raccontò il prigioniero, — che ogni potere è violenza sull’uomo, e che verrà un tempo in cui non vi saranno né potere, né cesari, né qualsiasi altra autorità. L’uomo giungerà al regno della verità e della giustizia, dove non occorrerà alcun potere.

— Poi?

— Poi non ci fu altro, — disse il prigioniero, — entrarono di corsa degli uomini che mi legarono e mi portarono in prigione.

Il segretario scriveva rapido sulla pergamena, cercando di non lasciarsi sfuggire neppure una parola.

— Non vi è mai stato al mondo, non vi è e non vi sarà mai, un potere piú grande e piú splendido per gli uomini del potere dell’imperatore Tiberio! — La voce rotta e sofferente di Pilato crebbe di tono. Il procuratore guardava con odio il segretario e la scorta.

— E non spetta a te, pazzo criminale, discuterne! — Poi Pilato esclamò: — La scorta esca dalla loggia! — E voltandosi verso il segretario, aggiunse: — Lasciami solo col criminale, è un affare di Stato!

I legionari alzarono le lance, e battendo ritmicamente le calighe chiodate, uscirono nel giardino; dietro la scorta uscí anche il segretario.

Per un certo tempo, il silenzio sulla loggia fu interrotto soltanto dal canto dell’acqua nella fontana. Pilato vedeva il disco piatto d’acqua che si sollevava sul cannello per poi infrangersi ai bordi e ricadere a rivoli.

Il prigioniero parlò per primo:

— Vedo che è successo un guaio per colpa di quello che ho detto a quel giovane di Kiriat. Io, egemone, ho il presentimento che gli succederà una disgrazia, e mi fa molta pena.

— Io credo, — rispose il procuratore con uno strano sogghigno, — che ci sia al mondo un’altra persona che ti dovrebbe fare piú compassione di Giuda di Kiriat, perché le toccherà una sorte ben peggiore di quella di Giuda!… Dunque, secondo te, Marco l’Ammazzatopi, boia freddo e convinto, la gente che, come vedo, — il procuratore indicò il viso deturpato di Jeshua, — ti ha picchiato per le tue prediche, i briganti Disma e Hesta, che coi loro complici hanno assassinato quattro soldati, e infine quello sporco traditore di Giuda, sono tutti buona gente?

— Sí, — rispose il prigioniero.

— E verrà il regno della verità?

— Sí, egemone, — rispose convinto Jeshua.

— Non verrà mai! — gridò a un tratto Pilato con voce cosí terribile che Jeshua barcollò. Con la stessa voce, molti anni prima, Pilato aveva gridato ai suoi soldati nella Valle delle Vergini: «Ammazzateli! Ammazzateli! Hanno preso l’Ammazzatopi!» Alzò ancora la voce logorata dal comando, in modo da essere sentito in giardino: — Criminale! Criminale! Criminale! — Poi, abbassando la voce, chiese: — Jeshua Hanozri, tu credi negli dèi?

— Dio è uno, — rispose Jeshua, — io credo in lui.

— Allora prega! Prega fortemente! Del resto… — qui Pilato arrochí, — non ti servirà. Hai moglie? — chiese malinconicamente il procuratore, senza capire che cosa gli stesse succedendo.

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