Paolo Villaggio - Fantozzi

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Aveva domandato in ufficio, da più settimane, consiglio su dove andare per mangiare bene senza farsi uccidere da prezzi assassini e Fracchia, che “sapeva sempre tutto”, gli consigliò “da Enzo il pescatore”: avrebbe mangiato pesce freschissimo e a buon prezzo.

Si erano vestiti per uscire. Lei aveva un abitino di tela verde, borsa rossa, non si era lavata i capelli e si sentiva a disagio. Fantozzi, che non aveva mai accettato il concetto dell'abito da mezza stagione, aveva un pesantissimo spigato siberiano grigio di confezione, cravattone con nodo sbagliato (la parte stretta gli arrivava oltre la cintura e la parte larga solo un palmo sotto il mento) e scarpe nuove strettissime che gli provocavano un curioso cerchio alla testa.

Fantozzi e la signora Pina entrarono “da Enzo il pescatore” alle undici e trenta di domenica mattina. Stavano pulendo ancora per terra. Un cameriere gli spiegò duramente che fino alle dodici e trenta non davano da mangiare.

Fantozzi ebbe l'idea di fare due passi sul lungomare. L'autunno è una stagione pazza: ci sono giornate polari e giornate con sole terrificante. Era una giornata di sole. Fantozzi era come immerso, col suo spigato siberiano, in un pentolone d'acqua calda, ma non osava togliersi la giacca perché sapeva di un tragico rammendo sotto la manica destra della camicia che gli era “partita” in ufficio con un sinistro lamento, e poi aveva le bretelle e il dramma della cravatta. Passeggiarono e a Fantozzi si piagarono i piedi per le scarpe nuove e dopo un quarto d'ora si trascinava carponi. Conquistarono una panchina al sole sotto un muraglione; un forno! Fantozzi era già quasi pronto per essere servito “al cartoccio”. Si tolse le scarpe e aspettarono le dodici e trenta.

La signora Pina con una voce molto triste ruppe il silenzio: “Sono quasi le dodici e trenta!”. Fantozzi cercò di rientrare nelle scarpe. Fu una lotta feroce e senza speranza. Si frantumò quasi l'indice che cercava di usare come calzascarpe, divenne cianotico, bestemmiò: i piedi erano quasi raddoppiati di volume. Le scarpe avevano un'espressione umana.

Entrò “da Enzo il pescatore” in calze: con la destra aveva spinto la porta galantemente per fare entrare la signora Pina, e con la sinistra reggeva le scarpe maledette.

Ma mentre teneva la porta aperta prima di loro entrarono anche quattrocentoventi enalisti di Monte Alto sul Serchio. Fantozzi perse subito una scarpa e passò la prima ora sotto i tavoli: era una scarpa nuova, e persa una si rovinava il servizio.

Gli enalisti avevano cominciato, attendendo il primo piatto, col vino, e si stavano denudando. Ci furono prima le barzellette di quello “spiritosissimo”, poi erano passati ai canti di montagna e adesso volavano già i panini.

Uno centrò violentemente Fantozzi in fronte mentre stava riemergendo sconsolato: aveva abbandonato le ricerche e dava ormai la scarpa come dispersa.

Aspettarono fino alle due senza poter avere un cameriere neppure a portata di voce e la signora Pina stava quasi svenendo dalla fame. Fantozzi che aveva sete si era versato e bevuto con avidità un bicchierone di aceto: ora aveva le labbra bianche.

Quando alle quattro si sentì, accolto da grandi risate, il primo rutto, la signora Pina cominciò a piangere silenziosamente mentre il marito le accarezzava la nuca color topo.

Alle quattro e mezzo inciampò un cameriere con una pentola di stracotto alla toscana col sugo: incappucciò Fantozzi. Lo stracotto era così buono che gli enalisti si avventarono a intingere pezzi di pane su quello “spigato alla toscana”.

“Io me ne vado!” sbottò timidamente Fantozzi, e gli portarono subito un conto pauroso: mezzo stipendio!

Pagò senza protestare e si ritrovarono sul lungomare al tramonto. Lui aveva una scarpa in mano, era in calze bucate e sembrava una grande porzione di stracotto. “Guarda che tramonto!” disse lei.

“È vero,” rispose Fantozzi “è una giornata meravigliosa.”

FANTOZZI SI DÀ AL TENNIS

Solo ora, all'inizio di un tragico declino fisico, Fantozzi sta realizzando di non essere mai stato uno sportivo.

In fondo aveva solo giocato al pallone per qualche anno e senza grandi risultati: solo un po' di calcio che a distanza di molti anni ricorda ancora con amore ostinato, ma aveva sempre corso il rischio di non essere incluso nella squadra della IV istituto tecnico che partecipava a una specie di torneo tra le classi della sua scuola. Ma questo vent'anni fa.

Bisognava correre assolutamente ai ripari, e Fracchia lo travolse in una avventura umiliante: cominciare a giocare a tennis. “L'unico sport che si può praticare alla nostra età” gli disse Fracchia. “divertente e poco dispendioso… Fisserò il campo per domenica mattina.”

Quando Fantozzi lo disse alla signora Pina ne nacque una calma lite tipica di un ménage rassegnato. “Ma lo sai che poi non avrai la costanza per continuare,” lo ammonì la moglie “butterai via inutilmente degli altri soldi!” Quest'ultima frase lo aveva fatto uscir di senno. Cominciò a urlacchiare che era tutta una vita che risparmiava e che non si meritava frasi simili. Accusò anche la moglie di avidità e di egoismo, e concluse che allora lei voleva vederlo morto d'infarto prematuramente. Non si parlarono più dopo questa lite, sabato sera. Ma quando la signora Pina lo vide che si alzava alle quattro di domenica mattina per andare a giocare a uno sport per lui misterioso, lui che la domenica era solito poltrire a letto fino alle 11, si sentì tutta intenerire.

Il campo purtroppo era stato fissato per l'unica ora libera: dalle 6 alle 7 del mattino. Tutte le altre ore erano già impegnate da tempo e più ci si avvicinava alle ore calde e comode intorno a mezzogiorno più aumentava il rango e il grado dei direttori generali e direttori naturali, ereditieri, cardinali o figli di tutti questi potenti.

In autunno, a quell'ora del mattino, in Italia c'è un clima siberiano (è una realtà che neppure la propaganda fascista era riuscita ad abbattere con lo slogan: “Italia il giardino d'Europa”). Quando Fantozzi uscì si trovò immerso in un nebbione terrificante, come da anni non vedeva. Avanzò a braccia tese, barcollando, alla ricerca della sua macchina. I numeri di targa non se li ricordava ormai più (e pensare che un tempo si ricordava i numeri anche di tutte le auto dei suoi amici e quelli del telefono!), ma la macchina la riconobbe dall'odore perché la sera prima aveva portato del gorgonzola a casa.

Un fantasma tra la nebbia lo aspettava ai cancelli del “Park tennis”: era Fracchia. Entrare nello spogliatoio era come entrare nel frigo di una grande macelleria. A causa della temperatura polare, tre giocatori entrati la sera prima erano rimasti (uno in piedi nell'atto di infilarsi un golf, un altro seduto su di un panchetto e il terzo mentre faceva le mosse per uscire) in istato di ibernazione. Avevano le facce sorridenti e immobili, ma anche molto assenti.

Fantozzi e Fracchia li salutarono molto imbarazzati, senza ottenere risposta. Si cambiarono per la partita. Per Fantozzi doveva essere la prima ed ultima partita della sua vita.

Uscirono nella nebbia. Fracchia aveva visiera parasole, un gonnellino pantalone bianco, di una sua zia ricca, maglietta Lacoste pure bianca, scarpe da passeggio di cuoio grasso con calze nere e giarrettiere e una monumentale racchettona da tennis modello 1913. Era questa un cimelio di famiglia che, per la sonorità delle sue corde, veniva scambiata da alcuni parenti per una chitarra e usata come tale.

Fantozzi era in canottiera, mutande aperte sul davanti e chiuse pietosamente con uno spillo da balia, racchetta da ping-pong in tela gommata e sughero, grande visiera verde con la scritta: “Casinò municipale di St. Vincent”, piedi nudi.

In campo, per la nebbia, i due giocatori non si vedevano. Alla prima tremenda battuta Fracchia infranse con una “cannonata” la grande vetrata del salone di soggiorno del “Park tennis”. Si senti solo lo schianto lontano nella nebbia.

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