Oreste Maria Petrillo - Una Linea Sottile

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Legal Thriller incentrato su due avvocati che lavorano ai lati opposti della Manica e i cui destini risultano mortalmente intrecciati.
Un brevetto farmaceutico del valore di miliardi , un uomo barbaramente ucciso e un processo per omicidio che si profila quasi impossibile. Sono questi gli elementi intorno cui ruota la vita di due giovani avvocati. Due storie di uomini che provengono da due realtà contrapposte che si intersecano in un gioco di ombre e specchi. Dove denaro e vendetta tracciano il confine oltre cui i nemici diventano alleati e dove non esistono certezze ma solo dubbi e sospetti. Una linea sottile che divide esistenze normali da vite distrutte dalla paura e spetterà ad una coppia di avversari ai due lati della barricata legale ergersi al di sopra di un intrigo internazionale che potrebbe mettere a rischio le loro professioni e, forse, la loro stessa vita... Un legal thriller emozionante sin dalla prima pagina.

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Il suo viso si colora leggermente di rosso mentre allungo la mano per stringere la sua. Rapidamente mi allontano dalla sua scrivania per evitare ulteriore imbarazzo e punto dritto alla fine del corridoio passando davanti ad una piccola costellazione di uffici arredati con gusto, tra cui anche il mio, e busso all’ultima porta in fondo.

<>. Richard Smithson, come al solito, è dietro alla sua scrivania padronale in mogano, intento a sorseggiare un caffè.

Il socio fondatore dello studio che occupa la parte est del palazzo, un uomo attempato con un fisico asciutto e i capelli argentei folti, è un astuto bastardo che nei trascorsi trentacinque anni ha dominato la scena del diritto societario in città. Un capo e mentore che ha speso gli ultimi cinque anni supervisionando la mia formazione e ad inculcarmi quell’idea che sta alla base di qualsiasi avvocato in gamba: in aula i risultati sono gli unici a contare.

Una mentalità che oggi ha dato i suoi frutti.

<>

<>, sorride sornione.

<>

<>, risponde con una smorfia esasperata.

<>, replico avanzando. La tirchieria di quest’uomo verso i propri dipendenti è nota in tutto l’orbe terracqueo in cui vi sia un tribunale.

<>. Mi fece accomodare sulle poltrone foderate di pelle sintetica di fronte alla scrivania. Quanto le adoro. Porgo a Smithson la sentenza appena ritirata in cancelleria e lui inizia a leggerla pigramente alternando placidi segni di approvazione ad un aplomb spettacolare.

In quelle poche pagine c’è il riassunto delle mie attività processuali. La società da noi difesa era stata citata per un risarcimento epocale da parte di una grossa azienda di autotrasporti che lamentava di essere stata danneggiata dalle protuberanze metalliche arrugginite del magazzino dei suoi clienti. La situazione era chiara e avevamo torto marcio. Pertanto, ho chiamato la controparte per trovare un accordo ed evitare il processo.

È stato allora che il fiuto è venuto in soccorso. È stato allora che ho calcolato il variare del vento.

Ogni società ha un amministratore che la rappresenta, anche in un giudizio civile o penale e i nostri avversari non facevano eccezione, tranne che per una cosa.

Il nome dell’amministratore che ci ha citati non era lo stesso presente sullo statuto della società. Dopo una breve indagine è venuto fuori che il vecchio gerente aveva dato le dimissioni appena un mese prima della vicenda e che il suo sostituto ha dato fuoco alle polveri prima ancora di essere nominato ufficialmente, quindi senza alcuna autorità legale al tempo dell’inizio della causa. L’idea mi era venuta al telefono con la segretaria della controparte. Al sentire il nome sbagliato la donna aveva avuto una titubanza, un’esitazione di troppo che mi ha messo sulla strada giusta.

<>, chiede Smithson di sottecchi, <>.

Mi stendo sullo schienale della poltrona.

<>, domando.

Richard annuisce assottigliando gli occhi e congiunge le mani lanciando uno sguardo oltre le lastre di vetro della sua finestra che offrono come spettacolo tutta Londra.

<>

Smithson rigira la poltrona e mi guarda fisso negli occhi.

<>.

Capitolo 2

Riccardo Ferrari

“Le persone di successo hanno l'abitudine di fare le cose che i falliti non fanno. Anche a loro non piace necessariamente farle. Però la repulsione si piega alla forza della determinazione.”

Questa frase di E. M. Gray ha condizionato la maggior parte della mia vita. Come avvocato e come ex atleta ho sempre pensato che si dovesse ricercare sempre la perfezione. Meglio puntare alle stelle e colpire la luna, che puntare al terreno e colpire i piedi!

È lunedì. Come ogni giorno mi sveglio alle 6:00 per andare ad allenarmi prima di vestire i panni del penalista.

Ormai sono abituato ai sermoni non richiesti dei frustrati che pronunciano la parola “capolinea” o “fallimento” in mia presenza. Sono sempre stato circondato, fin dai tempi del liceo, da persone che credevano di saperla più lunga di me.

“Sì, va beh, ora ti alleni, ma aspetta di iscriverti all’università e vedrai…”; “Quando dovrai lavorare non avrai più tempo…”; “Quando avrai una famiglia non riuscirai più a pensare al tuo fisico…”, a sentir loro avrei dovuto smettere di allenarmi più di dieci anni fa, invece sono ancora qui: dopo il liceo, dopo l’università e nonostante il lavoro! Aspetto cosa vorranno inventarsi più avanti...

La verità è che quando fai qualcosa che agli altri non riesce, stai minando ben bene la loro realtà e per timore, ti attaccano, sminuendoti. Oggi giorno le opinioni rappresentano la merce più a buon mercato!

Vado nella mia stanza adibita a palestra, accompagnato dal mio personal trainer, Lucky, un cuccioletto instancabile di Epagneul Breton e inizio a tirare pugni al sacco... spesso lo faccio quando devo pensare alla soluzione per un caso difficile... Continuo il workout con qualche esercizio di pesistica e vado a fare una doccia per poi, finalmente, avere la mia meritata colazione! Non ho mai capito come fanno alcune persone a rinunciare a questo fantastico momento della giornata: per me, iniziare la giornata senza la colazione, equivale a guidare l’auto senza metterci la benzina.

Scelgo attentamente il vestito e la cravatta da indossare - devo dire che sono stato ben istruito dalla mia fidanzata, Maya, ora all’estero per lavoro, perché prima ero una frana nell’abbinare i colori - e mi avvio con lo scooter al Tribunale, un grosso grattacielo di vetro, aula penale, secondo piano.

Mentre aspetto il mio turno durante la lunga attesa per prendere l’ascensore - di solito vado a piedi, ma oggi ho la borsa stracolma - ricordo quando ero ancora un principiante praticante avvocato e, intimorito, mi accingevo a conoscere questo mondo col mio primo dominus: un avvocato anziano uscito direttamente dalla penna di un regista di teatro napoletano del secolo scorso, un procuratore partenopeo molto folcloristico che confondeva l’improvvisazione con la procedura e la fantasia con la retorica.

In ascensore, pieno più del limite massimo consentito, ascolto i discorsi degli avvocati e dei tanti azzeccagarbugli che affollano quotidianamente i corridoi di questo immenso edificio.

Osservo i linguaggi non verbali del corpo: un bravo penalista deve essere anche un valente psicologo. Ascolto due praticanti che si lamentano dell’esame di abilitazione e ritorno con la mente alla mia pratica legale quando anche io sono passato sotto la mannaia dell’esame di abilitazione. Un modo per i Consigli dell’Ordine di avere il controllo sul mondo del lavoro e sui loro sottoposti.

Entro in aula prima di tutti: non sono mai riuscito a prenotarmi per primo anche quando entravo col personale di servizio e, come è consuetudine nelle Corti di Napoli, trovo in lista avvocati ai primi posti delle cause, ovviamente non presenti...

Mi sono sempre chiesto il segreto di questo dono dell’ubiquità! Avvocati ancora sotto le lenzuola che, con la forza della visualizzazione, risultano prenotati prima degli altri… Mi metto in lista come quarto. Mi accomodo in seconda fila per lasciare i primi posti ai legali fantasma "prenotati" prima di me e inizio a leggere un libro del mio autore preferito, provvidamente portato in borsa per non annoiarmi: “La giuria” di John Grisham.

Verso le 9:30 il Giudice fa rientro dal bar, indossa la toga e finalmente, dopo più di un’ora di attesa, in un’aula gremita di persone, tra giornalisti e parenti dei detenuti, il sipario si alza e lo spettacolo inizia.

Le prime due cause sono semplici rinvii dovuti ad assenza dei testimoni e ad un impedimento degli avvocati difensori: in altre parole un metodo per procrastinare la causa il più a lungo possibile sperando o nell’aiuto della prescrizione o nell’aiuto di un indulto ricevuto da qualche parlamentare attento ai bisogni degli imputati. La terza causa, invece, rappresenta uno stacco dalla monotonia della mattinata. Si interroga il testimone principale dell’accusa, un querelante che non riesce né ad esprimersi bene in italiano né ad articolare il suo discorso in maniera chiara e che porta il giudice a dover fare da interprete!

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