“Dev’essere bello,”disse Zoe, distrattamente. Non pensava davvero che fosse bello avere fratelli maggiori. Non aveva la minima idea di come doveva essere. Era soltanto un’esperienza diversa, che lei non aveva mai vissuto.
“Direi di si.”
Le risposte di John erano sempre più distaccate. Non le stava neanche più facendo domande. E non erano ancora arrivati alla portata principale.
Fu con un certo sollievo che Zoe vide la cameriera portare due piatti, sapientemente equilibrati sul proprio braccio, con il peso equamente distribuito tra gomito e palmo.
“Oh, ecco la nostra cena,” disse lei, più che altro per distrarlo.
John si guardò attorno, muovendosi con una grazia che sicuramente rimarcava il suo impegno in palestra. Era un uomo piuttosto in gamba. Attraente, affascinante, con un buon lavoro. Zoe cercò di concentrarsi su di lui, di applicarsi di più. Mangiando sarà più facile, pensò. Guardò con attenzione il cibo nel suo piatto: ventisette piselli, esattamente cinque centimetri di spessore sulla bistecca, e cercò di impedire a qualsiasi cosa di distrarla dai discorsi dell’uomo.
Ciononostante, sentì i silenzi imbarazzanti tanto quanto lui.
Alla fine, John si offrì di pagare per entrambi – la sua quota era di $37.97 – e Zoe accettò con gratitudine. Dimenticò che avrebbe dovuto obiettare almeno una volta per dargli la possibilità di insistere, ma le venne in mente soltanto quando vide la leggera contrazione agli angoli della bocca di lui mentre porgeva la carta di credito alla cameriera.
“Beh, è stata una bellissima serata,” disse John, guardandosi intorno e abbottonandosi la giacca mentre si alzava. “È proprio un ristorante carino.”
“Il cibo era ottimo,” mormorò Zoe, alzandosi. Avrebbe preferito restare seduta ancora un po’.
“È stato bello conoscerti, Zoe,” disse lui. Le porse la mano. Quando lei la strinse, l’uomo si avvicinò e le baciò le guance il più brevemente possibile, prima di allontanarsi di nuovo.
Non si offrì di accompagnarla alla sua auto, né tantomeno a casa. Nessun abbraccio, nessuna richiesta di rivederla. John era piuttosto gentile, tutto sorrisi asimmetrici e gesti attenti, ma il messaggio era chiaro.
“Anche per me, John,” rispose Zoe, prendendo la borsa e permettendogli di uscire dal ristorante prima di lei, in modo che non ci fossero imbarazzanti convenevoli durante il tragitto verso il parcheggio.
Nell’intimità della propria auto, Zoe sprofondò nel sedile del conducente e mise la testa tra le mani. Stupida, stupida, stupida. Farti distrarre così tanto dalla lunghezza del passo dei vari camerieri da non riuscire a concentrarti sul tuo affascinante, attraente ed estremamente idoneo cavaliere.
Le cose stavano oltrepassando ogni limite. Zoe lo sentiva, nel profondo del suo cuore, e probabilmente ne era già consapevole da un po’. Ormai riusciva a stento a concentrarsi sui segnali sociali senza che inutili calcoli e la continua ricerca di schemi le facessero girare la testa. Era già piuttosto grave non capire tutti i segnali quando li sentiva o li vedeva, ma non notarli assolutamente era ancora peggio.
“Che stupida,” mormorò tra sé e sé, sapendo di essere l’unica persona che l’avrebbe sentito. Questo le fece venir voglia di piangere e ridere contemporaneamente.
Per tutto il tragitto verso casa, Zoe ripercorse gli eventi della serata nella sua mente. Diciassette pause imbarazzanti. Almeno venti occasioni in cui John avrebbe desiderato che lei mostrasse più interesse. E chissà quante altre che non aveva neanche notato. Una cena offerta, a base di bistecca: non abbastanza per compensare il fatto di sentirsi un’emarginata che sarebbe morta single e sola.
Insieme ai gatti, naturalmente.
Neanche Eulero e Pitagora, che miagolavano e cercavano di rivaleggiare tra loro per il diritto di saltarle in grembo sul divano, riuscirono a farla sentire meglio. Lei li prese entrambi e li calmò, per niente sorpresa quando il loro interesse si spense e iniziarono ad aggirarsi lungo la parte posteriore del divano.
Aprì ancora una volta l’e-mail ricevuta dalla dott.ssa Applewhite, cercando il numero della terapista che le aveva inviato.
Non ci sarebbe niente di male, vero?
Zoe compose il numero sul suo cellulare, una cifra alla volta, nonostante lo avesse memorizzato al primo sguardo. Trattenne il fiato, il dito rimase sospeso sul pulsante verde di chiamata, ma lo forzò ad abbassarsi e portò il cellulare all’orecchio.
Drin-drin-drin.
Drin-drin-drin.
“Salve,”disse una voce femminile dall’altro capo del telefono.
“Salve …” iniziò Zoe, ma si interruppe immediatamente, mentre la voce continuava.
“Avete chiamato gli uffici della dott.ssa Lauren Monk. Siamo spiacenti, al momento siamo fuori dagli orari di servizio.”
Zoe gemette tra sé. Segreteria telefonica.
“Se desiderate fissare un appuntamento, modificare un appuntamento concordato o lasciare un messaggio, vi preghiamo di farlo dopo il …”
Zoe allontanò bruscamente il telefono dall’orecchio, come se bruciasse, e annullò la chiamata. Nel silenzio, Pitagora miagolò vivamente, quindi saltò dal bracciolo del divano sulla sua spalla.
Avrebbe dovuto fissare un appuntamento, e anche alla svelta. Lo promise a se stessa. Ma non c’era nulla di male nel lasciar passare un altro giorno, no?
“Brucerai all’inferno,”annunciò sua madre. Aveva uno sguardo trionfante, una specie di follia le illuminava gli occhi. Guardando più attentamente, Zoe si accorse che si trattava del riflesso delle fiamme.“Figlia del diavolo, brucerai all’inferno per l’eternità!”
Il calore era insostenibile, Zoe lottò per rimettersi in piedi, per muoversi, ma qualcosa la tratteneva. Le sue gambe erano come di piombo, ancorate al pavimento, e lei non riusciva a sollevarle. Non poteva fuggire.
“Mamma!”gridò Zoe. “Mamma, ti prego! Fa troppo caldo. Fa male!”
“Brucerai per sempre,”ridacchiò sua madre e, davanti agli occhi di Zoe, la sua pelle diventò rossa come una mela, delle corna si sollevarono dalla sua testa e una coda spuntò dietro di lei. “Brucerai, figlia mia!”
Il suono stridulo del cellulare svegliò Zoe di soprassalto, interrompendo l’incubo, e Pitagora aprì uno dei suoi occhi verdi verso di lei con un’espressione minacciosa, prima di alzarsi dalle sue caviglie e allontanarsi.
Zoe scosse il capo, cercando di orientarsi. Giusto. Era nel suo letto a Bethesda e il suo cellulare stava squillando.
Armeggiò con il dispositivo per accettare la chiamata, le sue dita erano rese lente e pesanti dal sonno. “Pronto?”
“Agente Speciale Prime, mi scusi se la disturbo a quest’ora,”disse il suo capo.
Zoe lanciò un’occhiata all’orologio. Erano passate da poco le tre del mattino. “Nessun problema,” rispose, mettendosi faticosamente a sedere. “Di cosa si tratta?”
“Abbiamo un caso nel Midwest per il quale potrebbe far comodo il suo aiuto. So che è appena rientrata a casa: possiamo mandare qualcun altro, se per lei è troppo.”
“No, no,” rispose precipitosamente Zoe. “Posso occuparmene io.”
Il lavoro le faceva bene. Sentirsi utile e risolvere i casi era l’unica cosa che le facesse sentire di avere qualcosa in comune con gli altri esseri umani. Dopo la debacle della serata precedente, sarebbe stato un sollievo gettarsi in qualcosa di nuovo.
“Perfetto. Accompagnerò lei e la sua partner in aeroporto entro un paio d’ore. Vi recherete in Missouri.”
***
Poco a sud di Kansas City, l’auto noleggiata arrivò all’esterno di un piccolo distretto di polizia e si fermò.
“Eccoci,” disse Shelley, consultando un’ultima volta il GPS.
“Finalmente,” sospirò Zoe, allentando la stretta sul volante e strofinandosi gli occhi. Avevano viaggiato di notte, inseguendo il sorgere del sole nel cielo. Era ancora mattina presto e già si sentiva come se fosse stata sveglia per l’intera giornata. La mancanza di sonno, unita alla fretta di prendere un aereo, potevano provocare questo effetto.
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