Clementine Skorpil - Max Leitner
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Il Brennero sarà anche un confine meteorologico, ma lassù sta piovendo a dirotto. L’acqua picchia forte sul parabrezza, sembrano colpi di cannone. Sull’Europabrücke forma delle pozzanghere. Domani da qui qualcuno salterà nel vuoto legato a una corda elastica. Oggi no, non è proprio il caso. Franco è parecchio indietro, ma dopo il ponte la strada è libera. All’uscita sud di Innsbruck Max rallenta. Sale per una stradina, raggiunge una zona che ha esplorato tante volte. C’è un punto riparato da cui si vedono arrivare le auto. Stanno aspettando un piccolo furgone grigio. Ma tutte le auto sono grigie ed è difficile capire quanto siano grandi. Non si riescono neppure a leggere le scritte. I tergicristalli fendono la pioggia, riempiono il parabrezza, si abbassano e sul vetro si forma di nuovo un muro d’acqua.
“Ci inzupperemo completamente”, urla Franco nel walkie-talkie.
“Sì, merda!”
“Con questo tempo schifoso come facciamo a riconoscere il furgone della Prosegur?”
Aspettano ancora. Le auto sfrecciano veloci sotto di loro, con questo tempo è da pazzi. Ci saranno certamente degli incidenti. Ma qui non c’è alcun pericolo. Non ci sono strettoie o rallentamenti, niente che possa aiutarli a identificare il portavalori.
“Rinunciamo”, dice Max.
Invertono la rotta. Il mitra sbatte sul tappetino, le cartucce premono contro il petto.
Max entra velocemente in autostrada. Il commando è carico di adrenalina. Max non riesce a smettere di imprecare e di picchiare le mani sul volante. Il piede destro preme sull’acceleratore come se li inseguisse il diavolo in persona. Calma! Se la polizia stradale lo ferma per eccesso di velocità e dà un’occhiata sul tappetino o nel bagagliaio… Notburga ha bisogno di un televisore nuovo, sul suo non si vede più niente. In casa ci sono tante cose da sistemare. Un divano nuovo di pelle, Kathi vorrebbe un Rolf Benz. E la bimba una console per i videogiochi. Non oggi, pensa.
Si fermano a un distributore, bevono un caffè e tornano alle auto. Punto della situazione domattina alle undici da Franco.
La ragazza di Franco ha messo sul tavolo caffè nero e pane croccante, bevono tutti rumorosamente dalle tazze decorate con le solite massime: “L’amore è…” La caffeina non riesce a vincere la stanchezza, sembrano tutti quanti un po’ pallidi e hanno le occhiaie.
“Stanotte non ho dormito”, annuncia Fausto.
“Cosa ci insegna il fallimento di ieri?”, chiede Max con un’aria dura. Tacciono.
“A portarci un giubbotto impermeabile?”, domanda Franco.
“A guardare le previsioni del tempo!”, lo fulmina Max.
“Ma va’, non ci azzeccano mai”, gli risponde Franco.
“Erano giuste! Avevano previsto la pioggia.”
“E allora se lo sapevi perché siamo andati?”
“Non lo sapevo. La commessa del negozio Despar mi ha detto che avevano avvertito del brutto tempo da giorni.”
UNA LEGGENDA
C’erano una volta tre cavalieri. Si chiamavano Osso, Mastrosso e Carcagnosso e vivevano pacificamente in Spagna. Ma un giorno la sorella di uno di loro subì violenza, e i tre cavalieri si vendicarono del colpevole e dovettero fuggire. Salirono su una nave e raggiunsero l’isola di Favignana, dove si nascosero nelle grotte. Gli abitanti dell’estremo sud d’Italia erano poveri, avevano bisogno di cibo, vestiti, alloggio e di qualcuno che li guidasse. Così i tre cavalieri fondarono una società segreta dalle regole rigide. Perché erano uomini d’onore.
La regola più importante era l’omertà. Non rivelare mai niente a nessuno. Se qualcuno non avesse rispettato questa regola, i boss della società segreta avrebbero dovuto ucciderlo. Perché erano uomini d’onore.
Poi ci fu una guerra. I nobili possedevano molte terre. Non potevano sorvegliarle da soli, perciò chiesero ai boss della società segreta di diventare i loro scagnozzi. I piccoli contadini malvagi volevano portare via ai nobili tutti i loro averi. E i boss dovevano ucciderli. Perché erano uomini d’onore.
In quel periodo un fantasma si aggirava per l’Europa e raccoglieva intorno a sé altri spiriti maligni. Volevano rovesciare l’ordine stabilito da Dio. I boss dovettero combattere contro questo fantasma e gli spettri suoi seguaci. Perché erano uomini d’onore.
Così i boss salvaguardarono la moralità. La domenica e a ogni festa comandata andavano in chiesa e pregavano, e quando c’era una processione portavano le teche e le reliquie e mettevano molto denaro nella borsa delle elemosine. Perché erano uomini d’onore.
Più avanti due grandi guerre imperversarono per il paese. Si combatteva in tutto il mondo e di conseguenza gli uomini divennero così poveri che seguivano il fantasma a frotte. Allora i boss dovettero scendere di nuovo in campo contro il fantasma. Perché erano uomini d’onore.
Ma per farlo avevano bisogno di molti soldi. Perciò la società segreta fu costretta a mettersi in affari e iniziò a commerciare con ogni angolo del mondo. I suoi membri commerciavano esseri umani, donne che offrivano i loro servigi amorosi ed erbe officinali che facevano fare alle persone dei sogni piacevoli. E aiutavano anche le persone a trovare fortuna nel gioco. Perché erano uomini d’onore.
I signori del paese erano buoni sovrani. Aiutavano i boss e i boss aiutavano loro. Perché erano uomini d’onore.
Poi però l’accumularsi di queste ricchezze favolose indebolì i sovrani e così incaricarono i giudici di combattere contro i boss. I giudici iniziarono a perseguirli e cercarono di recidere tutti i rami della società segreta. I boss dovevano uccidere questi giudici. Perché erano uomini d’onore.
Oggi si parla molto delle vittime innocenti della mafia, delle persone assassinate da Cosa Nostra, dalla camorra e dalla ’ndrangheta. Ma ci sono anche casi molto meno spettacolari: uno di questi riguarda il sottoscritto. A sei anni fui strappato via dalla calda terra del sud, sradicato e trapiantato nel freddo e inospitale nord.
Mio padre era cresciuto in un paese fuori Napoli. Si dice che ci sia un abisso tra città e campagna, che le persone in campagna avrebbero meno opportunità. Nel paese di mio padre tutti potevano emergere, si provvedeva ad allevare i bambini, istruirli e avviarli al lavoro. Solo i fifoni e gli scansafatiche, quelli che si rifiutavano di imparare il mestiere, avevano dei problemi. Mio padre era uno di questi indolenti. Più tardi sostenne che si sarebbe fatto arrestare persino se a un passante fosse caduto il portafoglio dalla tasca dei pantaloni proprio davanti a lui e gli fosse toccato semplicemente raccoglierlo. Non era proprio tagliato per fare il borseggiatore, il truffatore o l’assassino. Anche a scuola questo suo difetto caratteriale era emerso presto. La sua pagella era tutta piena di dieci, solo di dieci. A casa aveva eretto un muro di libri intorno a sé. Eppure la sua vita non era piacevole, almeno fino a quando i suoi genitori non lo mandarono al liceo a Napoli. Più tardi frequentò l’università, un vero covo di vigliacchi e di falliti. In ogni caso io sono stato concepito laggiù, almeno così si dice. In un’aula universitaria di chirurgia, dove mio padre aveva conosciuto mia madre. Anche se dire che i due fossero andati subito al sodo non è esatto. Si incontrarono spesso, andarono insieme a una festa studentesca ed è allora che accadde. O forse avvenne solo in una delle notti successive, chi può dirlo con precisione?
Questa leggenda, comunque, viene raccontata nella famiglia di mio padre per riabilitarlo. Sua madre era preoccupata che lui potesse essere dell’altra sponda perché – anche se era già alla fine dell’università – non aveva ancora una ragazza. Quando infine mia madre comparve improvvisamente all’orizzonte, si sposarono subito.
Mio padre lavorava in ospedale e lì si trovò di fronte dei vecchi nemici. I quali tutto d’un tratto fecero finta di non averlo mai insultato, maltrattato o addirittura pestato anni addietro nel cortile della scuola o sulla strada per tornare a casa. Fecero a mio padre un’offerta: gli chiesero se poteva togliere a questo o quell’altro simpatico giovane una pallottola dalla pancia, o procurare della morfina dalla farmacia della clinica. Un piccolo gesto per rinsaldare la vecchia amicizia e proteggere la sua famiglia – la graziosa moglie e il principe ereditario.
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