Alla fine di giugno José María Escrivá compilò un possibile programma per l’Opera di San Raffaele in vista del successivo anno accademico. Dopo aver tracciato una croce con quattro punte terminali, intitolò lo scritto “San Rafael” e, subito dopo, aggiunse le attività e i nomi degli studenti che avrebbero potuto aiutarlo: «1/ Circoli settimanali di 9. 2/ Uno generale al mese. 3/ Catechismo (Munárriz). 4/ Medicina (Azúa [238]). 5/ Missioni (Valentín, per [il piccolo]). 6/ Proselitismo (Vargas ed Herrero, J.R.). 7/ Amministrazione (Cifuentes)» [239]. Inoltre incluse un punto che riassumeva gli obiettivi che dovevano essere comuni ai ragazzi partecipanti: «8/ Pietà Studio — Fraternità — Segreto — Obbedienza — Una lingua straniera» [240]. Erano idee che aveva già trasmesso nei mesi precedenti: pregare con devozione, studiare con serenità, volersi bene sinceramente, essere discreti al momento pubblicizzare l’apostolato dell’Opera —farlo in modo naturale, senza ostentazione—, obbedire al direttore spirituale per quanto concerne il rapporto con Dio e utilizzare l’estate per studiare una lingua straniera.
Nel primo semestre del 1933 l’apertura dell’accademia fu preceduta da alcuni episodi. Infatti si incorporarono all’Opera José María González Barredo, Jenaro Lázaro, Manuel Sainz de los Terreros e, nel semestre successivo, Ricardo Fernández Vallespín. I primi tre erano giovani professionisti, su cui don José María contava perché collaborassero alle attività di direzione o di gestione dell’accademia. Inoltre, l’appartamento degli Escrivá Albás, in calle Martínez Campos, si respirava un ambiente gradevole, familiare, che favorì la formazione degli universitari che si avvicinavano all’Opera.
José María González Barredo aveva conosciuto don José María sei anni prima [241]. A quell’epoca assisteva ogni giorno alla Messa nella cappella del Patronato de Enfermos, prima delle lezioni nella Facoltà di Scienze Chimiche della Centrale. Nel marzo del 1931 il cappellano gli aveva chiesto di pregare per una intenzione particolare. Come annotò Escrivá, «la mia intenzione era che lui, così devoto, fosse scelto da Dio come apostolo nella sua Opera. Già altre volte, vedendolo dal mio confessionale, avevo chiesto la stessa cosa al suo Angelo custode» [242]. Poi però le vicende avevano preso un’altra piega, in quanto Escrivá si era trasferito al Patronato di Santa Isabel e González Barredo aveva ottenuto una cattedra alla Scuola Secondaria di Linares, vicino Jaén.
Nel 1932 il giovane laureato in Chimica si fermava durante le vacanze a Madrid per redigere la tesi dottorale nell’Istituto di Fisica e Chimica. Disponeva di un finanziamento della Fondazione Rockefeller. Inoltre, riusciva a conciliare questo lavoro con l’apprendimento del tedesco nell’ “Hogar Santa María”, in calle Martín de los Heros [243]. Un giorno attorno al Natale di quell’anno don José María lo incontrò per strada. Il sacerdote propose al dottorando un appuntamento per quello stesso pomeriggio. Finito il suo lavoro in laboratorio, González Barredo vi si recò. Dopo i preamboli di saluti, Escrivá gli parlò del messaggio di santità nella professione, proprio dell’Opera, mettendo l’accento sul suo carattere soprannaturale. José María, che da anni si domandava che strada doveva intraprendere nella sua vita —l’apertural’unica cosa chiara che aveva era la sua vocazione scientifica—, ricordava la sua risposta: «Fu tale l’impressione che mi produsse il Padre, e nello stesso tempo la tranquillità e la pace, che mi decisi a chiedere l’ammissione all’Opera immediatamente e senza alcun tipo di dubbio» [244]. Don José María gli raccomandò di concedersi un po’ di tempo per meditare davanti a Dio questa decisione e per consultare il suo direttore spirituale. Poche settimane dopo, l’11 febbraio 1933, González Barredo disse a Escrivá che aveva deciso. Poi ritornò a Linares. Da lì mantenne un contatto epistolare con il fondatore e qualche volta Isidoro Zorzano gli fece visita [245].
Abbiamo visto che Jenaro Lázaro aveva conosciuto don José María nelle corsie dell’Ospedale Generale alla fine del 1931. Lavorava come dipendente delle ferrovie, ma allo stesso tempo si dedicava alla scultura religiosa, disponendo di un piccolo laboratorio personale. Un po’ per volta le sue opere incontrarono apprezzamenti. Man mano che riceveva altre commesse si appassionava, pensando alla possibilità di dedicarsi professionalmente all’arte. Aveva trentun anni quando, il 10 febbraio 1933, chiese l’ammissione all’Opera.
Pepe Romeo, assente per malattia dall’estate dell’anno precedente, ritornò a Madrid nel marzo del 1933 e s’iscrisse come studente esterno di Architettura. Per recuperare parte del tempo perduto, seguì delle lezioni private insieme a un amico, Manuel Ambrós, «di due materie del terzo e quarto anno —Resistenza dei materiali e Calcolo delle strutture— particolarmente impegnative» [246]. Le lezioni, che si tenevano in casa di Romeo, erano impartite da Ricardo Fernández Vallespín, uno dei migliori studenti del penultimo anno di Architettura [247]; queste lezioni gli consentivano di collaborare al sostegno della sua famiglia. Il pomeriggio del 14 maggio —ricordava Fernández Vallespín—, «mentre io stavo svolgendo su una piccola lavagna il tema della lezione, si aprì la porta ed entrò il Padre» [248]. Si presentarono, e il sacerdote invitò il professore a incontrarlo un giorno a casa sua; poi Escrivá si congedò perché non voleva disturbare la lezione.
Il 29 maggio Ricardo andò a casa di don José María in calle Martínez Campos. Dialogarono a lungo sulla vita cristiana. «Prima di congedarmi il Padre si alzò, andò davanti a una libreria, prese un libro che aveva usato e nella prima pagina scrisse, come dedica, queste tre frasi che poi inserì con un commento nel suo libro Consideraciones Espirituales , che io poi spero di aver adempiuto: + Madrid −29−V−33. Cerca Cristo. Trova Cristo. Ama Cristo» [249]. Il libro era la Historia de la Sagrada Pasión , del gesuita Luis de la Palma. Ricardo annotò in un diario personale l’impressione che gli provocò: «una nuova conoscenza che può influire non poco nella mia vita; ho fatto amicizia con il Padre José María, un giovane Apostolo entusiasta» [250].
Durante l’estate Fernández Vallespín andò in vacanza a Ávila con degli amici. Al ritorno, ebbe alcuni colloqui sporadici con Escrivá fino al 2 novembre, giorno in cui la conversazione in calle Martínez Campos fu più lunga. Ricorda Ricardo: «capii chiaramente che l’Opera che Dio Nostro Signore voleva che si realizzasse sulla terra non mirava a risolvere il problema della Spagna in quel tempo di persecuzioni; che la voleva per tutto il mondo e per sempre; che un gruppo di cristiani, decisi a farsi inchiodare sulla croce con Cristo, potevano ricristianizzare il mondo, portando l’amore di Dio a tutte le creature nell’esercizio delle loro attività in mezzo al mondo» [251]. Escrivá non lo invitò immediatamente a propagare questo ideale. Però Fernández Vallespín disse: «“Io voglio far parte di questo”. Scrisse così perché neppure sapeva come si chiamava “questo”, cioè l’Opera di Dio. Il Padre mi guardò e mi disse di andare per tre giorni a fare la comunione, chiedendo allo Spirito Santo di vedere con chiarezza se ero realmente deciso. Io ero felice, non pensavo a ciò che avrei dovuto lasciare, ma al fatto che avevo trovato un tesoro. E così sono andato, per la prima volta in vita mia, a fare la comunione per tre giorni di seguito; poi sono andato a confermare la mia richiesta, senza dubitare che era Dio a chiedermelo e io ero molto contento che me lo chiedesse» [252].
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