1 ...6 7 8 10 11 12 ...15 Al, dal canto suo, era combattuto. Quell’Efebo era splendidamente terribile. Quando gli venne in gola, quasi non si strinse. Ingoiò tutto con gioia. Era sbagliato. Se mostrava piacere, i Padroni gliel’avrebbero fatta pagare.
Decise di aumentare il carico.
Non gli diede tempo di riprendersi. Gli afferrò i capelli sulla nuca e lo guardò. Le labbra gonfie, un rivolo di bava che sgorgava da un lato, gli occhi lucidi, bellissimo.
Oh, quanto avrebbe dato per possedere tale gemma!
Ma quei pensieri erano pericolosi.
Lo afferrò e lo sbatté sulla sdraio. In un attimo, gli fu sopra. E lo penetrò, senza nemmeno prepararlo. Si rese subito conto che, comunque, non ne avrebbe avuto bisogno. Quella bellezza riusciva ogni volta a stupirlo. Ad cominciò a muoversi e gemere, contorcendosi in preda all’estasi.
Non andava bene proprio affatto!
Al cercò di distrarsi da quell’immenso piacere, pensando a come umiliare la sua vittima e -allo stesso modo- a non offenderla. Anche se, a ben vedere, per offendere tale famelico bocconcino ci sarebbe voluto un miracolo.
Si guardò attorno. Tutti i Padroni erano impegnati a scopare col vicino più prossimo. Tutti quanti. Riportò la sua attenzione alla meravigliosa creatura che aveva davanti. Ad tutto sembrava, tranne che umiliato. La Bestia doveva escogitare qualcosa e al più presto. Ma quel folletto ribelle si dimenava oh-così-sinuosamente sotto di lui che gli era impossibile pensare. Allora con una mano gli afferrò -di nuovo- i capelli, tirando forte. L’altra gli immobilizzò un fianco. Le spinte divennero più violente e mirate. Abbandonata la criniera, si concentrò sul piccolo ma delizioso pene del giovane. E strinse.
“Oh, mio Dio!” urlò quello, più volte.
Al si stava innervosendo. Possibile non gli importasse un beato accidente che se lo stesse scopando, con rabbia, davanti a tutti? Senza che fosse stato lui ad approcciarlo? Come poteva portarlo a ribellarsi e nascondersi, se la sottomissione pubblica non lo umiliava minimamente! Anzi, se la stava godendo come un ossesso!
Non voleva ricorrere al dolore fisico, ma sembrava l’unica soluzione.
Afferrò i testicoli, quasi glabri, e strattonò. Il ragazzo urlò, per la prima volta, di dolore. Ma si strinse alle spalle della Bestia, come in cerca di protezione.
“Sei un Dio!” gridò, tra i gemiti. “Sei il mio Dio!”
Al ebbe quasi il coraggio di ammosciarsi, mentre era ancora sepolto in quel calore.
Non glielo aveva mai detto nessuno. Mai, in più di trent’anni!
La felicità gli fece venire un coso alla gola. Subito, però, percepì la malvagia invidia dei Padroni.
Lui un Dio? Un cazzo di Schiavo?! Ma quando mai!
Doveva risolvere e in fretta.
Ritornò a masturbarlo e quello venne, un suono melodioso che Al già conosceva. Sapeva l’effetto che avrebbe provocato. Infatti, poco dopo, i Padroni lo imitarono.
Ma Al era un professionista. Rimase concentrato sul compito. Nulla avrebbe potuto distrarlo. Continuò a spingere, sempre nello stesso punto. Il ragazzo urlava, abbracciandolo disperato. Ci volle pochissimo perché ritornasse duro.
La Bestia agì d’istinto.
Sollevò una mano e la lasciò cadere sul volto del giovane. Non fu uno schiaffo, ma -da lontano- lo sarebbe sembrato. Era ciò che contava.
Riafferrò quei capelli di seta e tirò di lato, esponendo la gola. Digrignò i denti, prima di affondarli in quella tenera carne. Forte. Sangue fresco e profumato gli si riversò tra le labbra. Ad singhiozzò. Dolore? Piacere? Entrambi? Mistero, ma fu delizioso.
“Sei il mio Dio,” ripeté, tra i gemiti.
Niente, non cedeva di mezzo millimetro.
Cosa ci voleva, per spezzarlo? Non c’era verso di farlo spaventare. Nemmeno ferirlo era servito a qualcosa.
A mali estremi, quindi, estremi rimedi.
“Ascoltami,” gli sussurrò. “Ho bisogno che tu lotti con me. Fingi che ti stia stuprando e che non ti piaccia. Cerca di liberarti e scappare. Puoi farlo?”
Il ragazzo lo guardò. Gli occhioni belli colmi di lussuria. Poi, si morse il labbro. Se lo morse talmente forte da spaccarlo.
“Vuoi che implori?” chiese.
No, seriamente. Chi cazzo era, quell’elfo?!
“Certo,” rispose la Bestia, prima di baciarlo. Bacio che venne ricambiato imperiosamente. Subito, lo Schiavo si allontanò. Per Ad, quello, fu il segnale. Iniziò a dimenarsi e cercò di staccarsi da lui.
“Ti prego, no! Lasciami!” urlò, in maniera molto convincente. Troppo convincente. Se si ignoravano i gridolini di due secondi prima, ovvio. Ma i Padroni non erano esattamente in grado di intendere e di volere. In linea generale e ancora meno in quel momento.
Al, quindi, uscì di botto da quel corpicino delicato. Spinse il giovane a terra, tra le sue gambe.
“Succhia!” gli ordinò, malvagio.
Ad scosse la testa, in lacrime. Allora lo afferrò, di nuovo, per i capelli e glielo mise a forza in gola.
Quel piacere, di nuovo. Viscoso. Miele e sangue.
Mentre succhiava, Al infilò un piede tra le cosce dell’Efebo e accarezzò il buchetto -appena usato- con l’alluce. Ad stava dando prova di essere un grande attore. Cercava di spostarlo e, contemporaneamente, se lo spingeva dentro. Lo Schiavo fece, ancora, finta di schiaffeggiarlo. Quando venne, sentì i muscoli di quella gola famelica che lo succhiavano fino all’ultima goccia.
Una volta venuto, lo buttò sul pavimento. Mentre si trovava schiena a terra, gli calpestò -piano- i testicoli.
“Hai capito cos’è che devi fare? Alla prossima fermata, scendi da qui e vatti a trovare un protettore!”
“Ma ne ho già uno!” piagnucolò Ad.
“Allora vedi di stargli attaccato, notte e giorno!”
A quel punto, Ad si sollevò e iniziò ad accarezzare la bellissima Bestia. Piano, con reverenza.
“Va bene. Ma perché devo scendere? Lui è già qui,” disse, guardandolo implorante.
“Bene! Vedi di attaccarti a lui!”
Beata ingenuità.
Non ci arrivava proprio che si stesse riferendo a lui.
Sputò in bocca a quel prodigio della natura e lo maltrattò, per finta, qualche altro istante. Giusto per essere sicuro. Poi, riuscì a chiedergli, in un soffio, “Come ti chiami?”
“Ad, e tu?”
“Al,” rispose la Bestia.
Subito, si ricordò.
“Alon,” si corresse.
Era quello il suo nome. Quand’era stata l’ultima volta che l’aveva usato? Che qualcuno l’aveva chiamato così?
Finiti i convenevoli, si alzò e gli diede un calcio. Uno leggero, quasi un buffetto, per allontanarlo.
“Corri,” gli disse. Ad lo guardò, le lacrime agli occhi. Lacrime di piacere, ovviamente. Venne, immediatamente, circondato da marpioni di ogni età che fecero a gara per occuparsi di lui.
Ma il ragazzo non rimase a scegliere il suo salvatore. Si alzò di scatto e scappò nella sua cabina.
“Ehi! Torna qui e continua lo spettacolo!” rise la folla.
Tutti applaudirono, mentre la Bestia si ricomponeva.
Una delle Schiave di Melinda, Selena, gli sorrise. Ma Aletta lo trascinò via. Il resto della cricca li seguì nella suite della donna.
“Notevole! Davvero notevole,” commentò Gene.
“Sì! Bravissimo, Al,” seguì Melinda.
Aletta gli stava accarezzando i lunghi capelli, facendoli scivolare tra le dita.
“Perché non hai pisciato addosso a quel piccolo figlio di troia, me lo spieghi?” domandò, cattivo, Amir.
A quel pensiero, Stine e Gene ebbero un brivido. Un caldo fiume giallo su quella puttana capricciosa. Ebbero quasi un’erezione. Ma Aletta divenne cupa. Le era passato il buon umore.
“Già,” disse, poi. “Perché non l’hai fatto?”
L’atmosfera era stata rovinata.
Selena tremò per la Bestia. Non le era mai passata, quella cotta adolescenziale.
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