— Fermatevi, signora, chiunque voi siate, ché quelli che qui vedete intendono solo di servirvi: non c'è ragione che vi mettiate così inopportunamente a fuggire, giacché né i vostri piedi ciò potranno sostenere né noi consentire.
Attonita e confusa, a questo ella non rispondeva parola. Si appressarono quindi a lei, e il curato, prendendola per la mano, continuò a dire:
— Quel che ci nasconde il vostro vestire, o signora, ce lo scuoprono i vostri capelli: prova evidente che non debbono essere di poca importanza le ragioni per cui si è camuffata in abito così sconveniente la bellezza vostra e tratta a tanta solitudine come è questa, nella quale è stata gran ventura il trovarvi, se non per riparare ai vostri mali, almeno per consigliare, giacché nessun male può dar tanta pena né, finché duri la vita, giungere a tale estremo di gravità che rifugga dall'ascoltare, se non altro, il consiglio che con retto intendimento si dà a colui che soffre. Perciò, signora o signor mio, quel che voi vogliate essere, rimettetevi dall'improvvisa paura che vi ha cagionato la nostra vista e raccontateci la vostra buona o cattiva sorte, che in tutti noi insieme o in ciascuno di noi troverete persone pronte a condolersi delle vostre sventure.
Mentre il curato così diceva, la giovane travestita se ne stava come incantata, a guardar tutti, senza muover labbra né dir parola alcuna, proprio come rozzo villano al quale a un tratto appariscano cose straordinarie né da lui mai vedute201. Ma, tornando il curato a dirle altre parole rivolte col medesimo effetto, ella dando un profondo sospiro, ruppe il silenzio e disse:
— Poiché la solitudine di questi monti non è giovata a nascondermi, e il disciogliersi dei miei scompigliati capelli non ha permesso che potesse mentire la mia lingua, sarebbe inutile ch'io ora volessi fingere ancora una cosa che, qualora mi fosse creduta, sarebbe più per cortesia che per alcun'altra ragione. Dopo di che, o signori, dico che vi son grata della profferta fattami, per la quale mi è imposto l'obbligo di soddisfarvi in tutto ciò che mi avete chiesto, sebbene io tema che il racconto che vi farò delle mie sventure avrà da produrre in voi al pari che compassione, cruccio, perché non vi riuscirà trovare riparo che valga né conforto per lenirle. Tuttavia, affinché nel pensier vostro non abbiate a titubare riguardo alla mia onoratezza, avendomi ormai conosciuto esser donna e vedendomi giovane, sola e vestita così - cose che tutte insieme e ciascuna per sé possono rovesciare a terra qualunque buon nome - vi dirò quello che, se avessi potuto, avrei voluto tacere.
Tutto ciò senza interrompersi, colei che sembrava donna tanto avvenente, disse con tanta scioltezza, con voce così soave che i tre furono ammirati della sua assennatezza non meno che della sua bellezza. E tornandole a fare nuove profferte e nuove preghiere perché volesse adempiere la promessa, ella, senza farsi più pregare, calzandosi con tutta compostezza e raccogliendo i capelli, si accomodò a sedere sopra un masso: quindi, con i tre disposti intorno a lei, facendosi forza per reprimere delle lacrime che le venivano agli occhi, con voce riposata e chiara cominciò la storia della sua vita così:
— Qui in Andalusìa c'è un paese da cui prende il titolo un duca che viene ad essere per esso uno di quelli chi si chiamano Grandi di Spagna. Egli ha due figli: il maggiore, erede del grado nobiliare e, a quanto sembra, dei retti costumi del padre; il minore invece non so di che cosa sia erede se non siano la perfidia di Vellido e la giarderia di Ganellone. Di tal signore son vassalli i miei genitori, di modesto lignaggio ma pur tanto ricchi che se ai lor beni di fortuna potessero essere uguali quelli della nascita, né essi avrebbero altro da desiderare né io ora avrei temuto di ritrovarmi nella sventura nella quale mi ritrovo, perché forse la mia mala sorte deriva da quella del non essere essi nati nobili. Ben è vero che non sono di così bassa condizione da doversene vergognare, né di così elevata che valgano a togliermi di mente quello che io penso, cioè che dalla loro umile origine proviene la mia disgrazia. Essi, in una parola, sono gente di campagna, gente alla buona, senza mescolanza d'alcun altro sangue che suoni disdoro, e, come suol dirsi, cristiani vecchi, stravecchi; agricoltori, ma tanto ricchi che la ricchezza e la liberalità va loro acquistando a poco a poco reputazione di nobiltà per nascita e anche per condizione sociale; sebbene, la ricchezza e la nobiltà di cui essi più si vantavano era di avere me a figlia loro, tanto che e perché non avevano altri a cui lasciare l'eredità e perché erano genitori e genitori amorosi, io era una delle figlie più vezzeggiate che mai genitori abbiano vezzeggiato, ero lo specchio in cui essi si specchiavano, il bastone della loro vecchiaia, l'oggetto a cui rivolgevano, conformandoli a quelli di Dio, tutti i desideri loro dai quali, essendo così nobili, non si dipartivano punto i miei. E al modo stesso che io ero padrona dei loro cuori, così ero tale dei loro averi: ero io ad assumere e a licenziare i servi; passava per le mie mani il rendiconto della semina e del raccolto; i frantoi per l'olio, i tini per il vino, l'ammontare del bestiame grosso e minuto, degli alveari; insomma, di tutto quanto un ricco campagnolo, quale mio padre, può possedere e possiede, tenevo io i conti, io n'ero la castalda e la padrona così solerte e con tanta sua soddisfazione che non saprei facilmente esprimere al vivo. Nelle ore di riposo che mi avanzavano della giornata, dopo di avere dato le disposizioni ai capoccia, ai mandriani e alle altre opre, le passavo in occupazioni che sono non meno permesse alle fanciulle che necessarie, come quelle che offre l'ago e il cuscinetto da ricamo e molto spesso la ròcca; e se talvolta, per sollevare lo spirito, smettevo queste occupazioni, mi raccoglievo nel diletto di qualche lettura devota o nel suonare l'arpa, poiché l'esperienza m'insegnava che la musica calma gli animi sconvolti e mitiga i travagli dello spirito. Questa era, dunque, la vita ch'io menava in casa dei miei genitori; e se ve l'ho narrata così particolarmente, non è stato per ostentazione o per far conoscere che sono ricca, ma perché si consideri come, senza mia colpa, sia io pervenuta da quello stato di felicità che ho detto alla presente miseria.
«Accadde pertanto che, passando la mia vita in mezzo a tanto da fare e in una clausura che si potrebbe comparare a quella d'un monastero, non vista a mio credere, da altri se non dai servitori di casa, (perché i giorni che uscivo a messa era tanto di buon mattino e così attentamente accompagnata da mia madre nonché da fantesche, tutta tappata e così circospetta che i miei occhi non vedevano della via più là di dove mettevo i piedi), ciò non ostante mi videro gli occhi dell'amore o, per meglio dire, dell'oziosaggine, rispetto ai quali sono da meno quelli della lince, mediante la persistenza di don Fernando, tale essendo il nome del figlio minore del duca che vi ho detto.
Non aveva finito di nominare don Fernando colei che faceva tale racconto, che Cardenio cambiò di colore e cominciò a imperlarglisi di sudore la fronte, con sì gran turbamento, che il curato e il barbiere, accortisene, temettero che gli venisse quell'accesso di pazzia che avevano sentito dire venirgli di tratto in tratto; ma Cardenio non fece se non trasudare rimanendo quieto e guardando fissamente la contadina, poiché si figurava chi dovesse essere; la quale, senza badare all'agitazione di Cardenio, continuò la sua storia dicendo:
— E mi ebbero quegli occhi suoi appena visto che (com'egli poi disse) rimase di me fortemente innamorato come ben fecero conoscere le prove che dette. Ma per abbreviare il racconto delle innumerevoli mie disgrazie, tacerò le accortezze che don Fernando adoperò per dichiararmi il suo affetto: sobillò tutta la gente di casa mia, dette e offrì donativi e favori ai miei parenti, tutti i giorni era festa e sollazzo nella mia strada, le serenate non lasciavano dormire nessuno la notte, i biglietti che, senza saper come, mi giungevano alle mani, erano infiniti, pieni di espressioni amorose e di assicurazioni, zeppi di promesse e di giuramenti più che non fossero tracciate lettere. Tutto ciò non solamente non m'inteneriva, ma mi rendeva dura per modo come se egli fosse mio nemico mortale e quanto metteva in opera per ridurmi al suo volere lo usasse per l'effetto opposto; e ciò, non perché mi dispiacesse il fare signorile di don Fernando né che avessi a noia le sue sollecitazioni, ché anzi mi cagionava non so qual contentezza il vedermi tanto amata e apprezzata da un cavaliere di sì alto grado, e neanche mi rincresceva leggere i miei elogi nelle sue missive, giacché quanto a questo, per brutte che si possa essere noi donne, son d'opinione che ci fa sempre piacere il sentirci chiamare belle. A tutto ciò nondimeno si opponeva la mia onestà e i consigli che di continuo mi davano i miei genitori, i quali ormai conoscevano molto apertamente l'intenzione di don Fernando, nulla importando a costui che lo sapesse il mondo intero. I miei genitori mi dicevano che solo nella mia virtù e bontà riponevano e affidavano l'onoratezza e la riputazione loro; che riflettessi alla disuguaglianza che c'era fra me e don Fernando, e da questo avrei potuto avvedermi che i suoi disegni (per quanto egli affermasse il contrario) più erano rivolti al piacer suo che al vantaggio mio; che s'io avessi voluto in qualche modo opporre qualche ostacolo affinché egli cessasse dalla non retta pretesa, essi mi avrebbero maritato subito con chi più mi piacesse tanto fra i primari del nostro paese, quanto di tutti i circonvicini, poiché tutto potevano sperare dalla nostra grande ricchezza e dal mio buon nome. Queste promesse sicure e le verità che esse mi dicevano più rinsaldavano la mia costanza, sì che non volli mai rispondere a don Fernando parola che, anche molto lontanamente, gli potesse dare speranza di ottenere lo scopo desiderato.
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