Dante Alighieri - La Divina Commedia di Dante Alighieri

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La Divina Commedia di Dante Alighieri: краткое содержание, описание и аннотация

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La Divina Comedìa è un poema allegorico di Dante Alighieri, scritto in terzine incatenate di endecasillabi in lingua volgare fiorentina. Il poema è diviso in tre parti, chiamate «cantiche» (Inferno, Purgatorio e Paradiso), ognuna delle quali composta da 33 canti formati da un numero variabile di versi, fra 115 e 160, strutturati in terzine. Il poeta narra di un viaggio immaginario, ovvero di un Itinerarium mentis in Deum, attraverso i tre regni ultraterreni che lo condurrà fino alla visione della Trinità. La sua rappresentazione immaginaria e allegorica dell'oltretomba cristiano è un culmine della visione medievale del mondo sviluppatasi nella Chiesa cattolica.

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di riguardar più me che li altri brutti?”.

E io a lui: “Perché, se ben ricordo,

già t’ho veduto coi capelli asciutti,

e se’ Alessio Interminei da Lucca:

però t’adocchio più che li altri tutti”.

Ed elli allor, battendosi la zucca:

“Qua giù m’hanno sommerso le lusinghe

ond’io non ebbi mai la lingua stucca”.

Appresso ciò lo duca “Fa che pinghe”,

mi disse “il viso un poco più avante,

sì che la faccia ben con l’occhio attinghe

di quella sozza e scapigliata fante

che là si graffia con l’unghie merdose,

e or s’accoscia e ora è in piedi stante.

Taide è, la puttana che rispuose

al drudo suo quando disse “Ho io grazie

grandi apo te?”: “Anzi maravigliose!”.

E quinci sien le nostre viste sazie”.

Inferno: Canto XIX

O Simon mago, o miseri seguaci

che le cose di Dio, che di bontate

deon essere spose, e voi rapaci

per oro e per argento avolterate,

or convien che per voi suoni la tromba,

però che ne la terza bolgia state.

Già eravamo, a la seguente tomba,

montati de lo scoglio in quella parte

ch’a punto sovra mezzo ‘l fosso piomba.

O somma sapienza, quanta è l’arte

che mostri in cielo, in terra e nel mal mondo,

e quanto giusto tua virtù comparte!

Io vidi per le coste e per lo fondo

piena la pietra livida di fóri,

d’un largo tutti e ciascun era tondo.

Non mi parean men ampi né maggiori

che que’ che son nel mio bel San Giovanni,

fatti per loco d’i battezzatori;

l’un de li quali, ancor non è molt’anni,

rupp’io per un che dentro v’annegava:

e questo sia suggel ch’ogn’omo sganni.

Fuor de la bocca a ciascun soperchiava

d’un peccator li piedi e de le gambe

infino al grosso, e l’altro dentro stava.

Le piante erano a tutti accese intrambe;

per che sì forte guizzavan le giunte,

che spezzate averien ritorte e strambe.

Qual suole il fiammeggiar de le cose unte

muoversi pur su per la strema buccia,

tal era lì dai calcagni a le punte.

“Chi è colui, maestro, che si cruccia

guizzando più che li altri suoi consorti”,

diss’io, “e cui più roggia fiamma succia?”.

Ed elli a me: “Se tu vuo’ ch’i’ ti porti

là giù per quella ripa che più giace,

da lui saprai di sé e de’ suoi torti”.

E io: “Tanto m’è bel, quanto a te piace:

tu se’ segnore, e sai ch’i’ non mi parto

dal tuo volere, e sai quel che si tace”.

Allor venimmo in su l’argine quarto:

volgemmo e discendemmo a mano stanca

là giù nel fondo foracchiato e arto.

Lo buon maestro ancor de la sua anca

non mi dipuose, sì mi giunse al rotto

di quel che si piangeva con la zanca.

“O qual che se’ che ‘l di sù tien di sotto,

anima trista come pal commessa”,

comincia’ io a dir, “se puoi, fa motto”.

Io stava come ‘l frate che confessa

lo perfido assessin, che, poi ch’è fitto,

richiama lui, per che la morte cessa.

Ed el gridò: “Se’ tu già costì ritto,

se’ tu già costì ritto, Bonifazio?

Di parecchi anni mi mentì lo scritto.

Se’ tu sì tosto di quell’aver sazio

per lo qual non temesti tòrre a ‘nganno

la bella donna, e poi di farne strazio?”.

Tal mi fec’io, quai son color che stanno,

per non intender ciò ch’è lor risposto,

quasi scornati, e risponder non sanno.

Allor Virgilio disse: “Dilli tosto:

“Non son colui, non son colui che credi””;

e io rispuosi come a me fu imposto.

Per che lo spirto tutti storse i piedi;

poi, sospirando e con voce di pianto,

mi disse: “Dunque che a me richiedi?

Se di saper ch’i’ sia ti cal cotanto,

che tu abbi però la ripa corsa,

sappi ch’i’ fui vestito del gran manto;

e veramente fui figliuol de l’orsa,

cupido sì per avanzar li orsatti,

che sù l’avere e qui me misi in borsa.

Di sotto al capo mio son li altri tratti

che precedetter me simoneggiando,

per le fessure de la pietra piatti.

Là giù cascherò io altresì quando

verrà colui ch’i’ credea che tu fossi

allor ch’i’ feci ‘l sùbito dimando.

Ma più è ‘l tempo già che i piè mi cossi

e ch’i’ son stato così sottosopra,

ch’el non starà piantato coi piè rossi:

ché dopo lui verrà di più laida opra

di ver’ ponente, un pastor sanza legge,

tal che convien che lui e me ricuopra.

Novo Iasón sarà, di cui si legge

ne’ Maccabei; e come a quel fu molle

suo re, così fia lui chi Francia regge”.

Io non so s’i’ mi fui qui troppo folle,

ch’i’ pur rispuosi lui a questo metro:

“Deh, or mi dì : quanto tesoro volle

Nostro Segnore in prima da san Pietro

ch’ei ponesse le chiavi in sua balìa?

Certo non chiese se non “Viemmi retro”.

Né Pier né li altri tolsero a Matia

oro od argento, quando fu sortito

al loco che perdé l’anima ria.

Però ti sta, ché tu se’ ben punito;

e guarda ben la mal tolta moneta

ch’esser ti fece contra Carlo ardito.

E se non fosse ch’ancor lo mi vieta

la reverenza delle somme chiavi

che tu tenesti ne la vita lieta,

io userei parole ancor più gravi;

ché la vostra avarizia il mondo attrista,

calcando i buoni e sollevando i pravi.

Di voi pastor s’accorse il Vangelista,

quando colei che siede sopra l’acque

puttaneggiar coi regi a lui fu vista;

quella che con le sette teste nacque,

e da le diece corna ebbe argomento,

fin che virtute al suo marito piacque.

Fatto v’avete Dio d’oro e d’argento;

e che altro è da voi a l’idolatre,

se non ch’elli uno, e voi ne orate cento?

Ahi, Costantin, di quanto mal fu matre,

non la tua conversion, ma quella dote

che da te prese il primo ricco patre!”.

E mentr’io li cantava cotai note,

o ira o coscienza che ‘l mordesse,

forte spingava con ambo le piote.

I’ credo ben ch’al mio duca piacesse,

con sì contenta labbia sempre attese

lo suon de le parole vere espresse.

Però con ambo le braccia mi prese;

e poi che tutto su mi s’ebbe al petto,

rimontò per la via onde discese.

Né si stancò d’avermi a sé distretto,

sì men portò sovra ‘l colmo de l’arco

che dal quarto al quinto argine è tragetto.

Quivi soavemente spuose il carco,

soave per lo scoglio sconcio ed erto

che sarebbe a le capre duro varco.

Indi un altro vallon mi fu scoperto.

Inferno: Canto XX

Di nova pena mi conven far versi

e dar matera al ventesimo canto

de la prima canzon ch’è d’i sommersi.

Io era già disposto tutto quanto

a riguardar ne lo scoperto fondo,

che si bagnava d’angoscioso pianto;

e vidi gente per lo vallon tondo

venir, tacendo e lagrimando, al passo

che fanno le letane in questo mondo.

Come ‘l viso mi scese in lor più basso,

mirabilmente apparve esser travolto

ciascun tra ‘l mento e ‘l principio del casso;

ché da le reni era tornato ‘l volto,

e in dietro venir li convenia,

perché ‘l veder dinanzi era lor tolto.

Forse per forza già di parlasia

si travolse così alcun del tutto;

ma io nol vidi, né credo che sia.

Se Dio ti lasci, lettor, prender frutto

di tua lezione, or pensa per te stesso

com’io potea tener lo viso asciutto,

quando la nostra imagine di presso

vidi sì torta, che ‘l pianto de li occhi

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