In breve il vento rinforzò, divenendo violentissimo; dall’alto di GraniteHouse si udiva il mare rombare sopra gli scogli. In certi angoli si formavano dei rapidi risucchi d’aria, ove la neve, formando alte colonne giranti, assomigliava a quelle trombe liquide piroettanti sulla loro base, che i bastimenti attaccano a cannonate. Però, l’uragano, venendo da nordovest, prendeva l’isola a rovescio e GraniteHouse, per la sua stessa posizione, era preservata da un assalto diretto. In mezzo a quella tormenta di neve, terribile come se si fosse prodotta su qualche contrada polare, né Cyrus Smith né i suoi compagni poterono, malgrado il loro vivo desiderio, avventurarsi all’esterno, ma dovettero restare rinchiusi durante cinque giorni, dal 20 al 25 agosto. Si sentiva la tempesta ruggire nei boschi dello Jacamar, che dovevano molto soffrirne. Parecchi alberi sarebbero stati indubbiamente sradicati, ma Pencroff se ne consolava, pensando che non avrebbe avuto il disturbo di doverli abbattere.
«Il vento si fa taglialegna; lasciamolo fare» ripeteva.
D’altronde, non vi sarebbe stato mezzo alcuno di impedirlo.
Quanto agli ospiti di GraniteHouse, dovettero allora ringraziare il Cielo di aver loro preparato quel solido e incrollabile rifugio. A Cyrus Smith spettava certo la sua legittima parte dei ringraziamenti, ma era la natura che aveva scavato l’ampia caverna ed egli non aveva fatto altro che scoprirla. Là, tutti erano al sicuro, e i colpi della tempesta non potevano raggiungerli. Se avessero costruito una casa di mattoni e legname sull’altipiano di Bellavista, non avrebbe certamente resistito alla furia di quell’uragano. Quanto ai Camini, solo al frastuono delle onde che si faceva sentire con tanta forza, bisognava credere che fossero assolutamente inabitabili, poiché il mare, scavalcando l’isolotto, doveva batterli rabbiosamente. Ma a GraniteHouse, nel cuore di quel masso, contro il quale né l’acqua, né l’aria avevano presa, nulla v’era da temere.
Durante quei giorni di clausura, i coloni non rimasero inattivi. Il legname, ridotto in assi, non mancava nel magazzino, e così a poco a poco, il mobilio venne completato con tavole e sedie, solide, senza dubbio, poiché non si fece economia di materiale. Ma quei mobili, alquanto pesanti, rispondevano male al loro nome, che fa della mobilità una condizione essenziale: però fecero egualmente l’orgoglio di Nab e di Pencroff, che non li avrebbero cambiati con dei mobili di Boulle.
Poi i falegnami divennero panierai, e non riuscirono male anche in questa nuova attività. Verso la punta che il lago proiettava al nord, era stato scoperto un fecondo vincheto, ove crescevano in gran copia piante di vimini. Prima della stagione delle piogge Pencroff e Harbert avevano fatto raccolta di quegli utili arbusti, i cui rami, convenientemente preparati, potevano ora essere efficacemente utilizzati. I primi saggi furono informi; ma, grazie alla destrezza e intelligenza degli operai, consultandosi reciprocamente, ricordando i modelli veduti, facendo a gara fra loro, panieri e ceste di diverse grandezze accrebbero presto l’attrezzatura della colonia. Il magazzino ne fu provvisto e Nab chiuse in ceste speciali le sue raccolte di rizomi, di mandorle di pino e di radici di dracena.
Durante l’ultima settimana del mese d’agosto, il tempo cambiò ancora. La temperatura scese un poco e la tempesta si calmò. I coloni si slanciarono fuori. C’erano certamente due piedi di neve sulla spiaggia; ma sopra quella neve indurita, si poteva camminare senza troppa fatica. Cyrus Smith e i compagni salirono sull’altipiano di Bellavista.
Che cambiamento! I boschi, che avevano lasciati verdeggianti, soprattutto nella parte vicina, ove dominavano le conifere, sparivano ora sotto un colore uniforme. Tutto era candido, dalla vetta del monte Franklin fino al litorale: le foreste, la prateria, il lago, il fiume, la spiaggia. L’acqua del Mercy correva sotto una volta di ghiaccio che, a ogni flusso e riflusso, rovinava un poco, frantumandosi con fracasso. Numerosi uccelli svolazzavano sulla superficie solida del lago: anatre, beccaccini, codoni e urie: ve n’erano a migliaia. Le rocce, fra le quali si scaricava la cascata sull’orlo dell’altipiano, erano irte di ghiacci. Si sarebbe detto che l’acqua sgorgasse da un mostruoso canale scavato dalla fantasia capricciosa di un artista del Rinascimento. Valutare i danni causati alla foresta dall’uragano non era ancora possibile: bisognava aspettare che l’immenso strato bianco si fosse disciolto.
Gedeon Spilett, Pencroff e Harbert non mancarono d’andare a visitare le loro trappole. Non le ritrovarono facilmente, sotto la neve che le copriva Dovettero pure stare attenti a non cadere nell’una o nell’altra di esse, cosa che sarebbe stata pericolosa e umiliante a un tempo: essere presi nella propria trappola! Ma un simile inconveniente fu evitato e vennero ritrovate le trappole perfettamente intatte. Nessun animale vi era caduto, benché le impronte fossero numerose nelle vicinanze e alcune fra esse mostrassero nettamente forme di artigli. Harbert non esitò ad affermare che qualche carnivoro del genere dei felini doveva esser passato di là, ciò che giustificava l’opinione dell’ingegnere sulla presenza di bestie pericolose nell’isola di Lincoln. Senza dubbio esse abitavano solitamente le fitte foreste del Far West; ma, spinte dalla fame, s’erano avventurate fino all’altipiano di Bellavista. Sentivano forse la presenza degli abitanti di GraniteHouse?
«Ma, insomma, di che felini si tratta?» chiese Pencroff.
«Sono tigri» rispose Harbert.
«Credevo che queste bestie si trovassero solo nei paesi caldi.»
«Sul nuovo continente,» rispose il ragazzo «si trovano dal Messico sino alle Pampas di Buenos Ayres. Poiché l’isola di Lincoln è press’a poco alla stessa latitudine delle province della Piata, non è da meravigliarsi se vi si incontrano delle tigri.»
«Bene, staremo in guardia» disse Pencroff.
La neve finì per dileguarsi sotto l’influenza della temperatura, che si era alzata. Cadde la pioggia, e, grazie alla sua azione dissolvente, lo strato bianco si cancellò. Malgrado il cattivo tempo, i coloni si rifornirono di tutto: mandorle di pino, radici di dracena, rizomi, liquore d’acero, per la parte vegetale; conigli, aguti e canguri, per la parte animale. Questi lavori resero necessarie delle escursioni nella foresta, ciò che diede modo ai coloni di constatare come una certa quantità d’alberi fosse stata abbattuta dall’ultimo uragano. Il marinaio e Nab si spinsero anche, con il carretto, fino al giacimento di carbon fossile, allo scopo di portare a casa alcune tonnellate di combustibile. Passando, videro che il fumaiolo del forno per le terraglie era stato molto danneggiato dal vento e scoronato di sei piedi buoni almeno.
Contemporaneamente al carbone, anche la provvista di legna fu rinnovata a GraniteHouse, approfittando della corrente del Mercy che si era liberata dai ghiacci, per condurne parecchi carichi. Poteva darsi che il periodo dei grandi freddi non fosse finito.
Fu fatta una visita anche ai Camini, e i coloni non poterono che compiacersi di non avervi abitato durante la tempesta. Il mare vi aveva lasciato segni indubbi delle sue devastazioni. Sollevato dal vento, aveva superato l’isolotto, aveva violentemente assalito i corridoi, che erano invasi dalla sabbia; le rocce, poi, erano coperte da fitti strati di alghe marine. Mentre Nab, Harbert e Pencroff cacciavano o facevano nuove provviste di combustibile, Cyrus Smith e Gedeon Spilett si dedicarono a ripulire un po’ i Camini e ritrovarono la fucina e i fornelli quasi intatti, giacché erano stati protetti sin dall’inizio dall’accumularsi delle sabbie.
La riserva di combustibile non era stata rinnovata inutilmente. I freddi pungenti non erano ancora finiti. È noto che nell’emisfero boreale il mese di febbraio si segnala principalmente per i grandi abbassamenti di temperatura. Nell’emisfero australe doveva essere lo stesso, e infatti la fine del mese d’agosto, ch’è il febbraio dell’America del Nord, non sfuggì a questa legge climatica.
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