Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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«Caro Cyrus,» rispose Gedeon Spilett «per me, queste teorie sono profezie, e un giorno si compiranno.»

«È il segreto di Dio» disse l’ingegnere.

«Tutto questo è bello e buono,» disse allora Pencroff, che aveva ascoltato tutt’orecchi; «ma volete dirmi, signor Cyrus, se l’isola di Lincoln è stata costruita dai vostri infusori?»

«No,» rispose Cyrus Smith «essa è puramente d’origine vulcanica.»

«Allora, un giorno scomparirà?»

«È probabile.»

«Spero bene che noi non ci saremo più.»

«No, rassicuratevi Pencroff, non ci saremo più, poiché non abbiamo nessuna voglia di morirvi e finiremo forse per abbandonarla.»

«Intanto,» rispose Gedeon Spilett «stabiliamoci qui come per l’eternità. Non bisogna far mai nulla a metà.»

Qui finì la conversazione. La colazione era terminata. L’esplorazione fu ripresa e i coloni giunsero al limite della regione paludosa.

Era proprio una palude, la cui distesa, sino alla costa arrotondata con cui terminava l’isola a sudest, poteva misurare venti miglia quadrate. Il suolo era formato da un fango argillosiliceo, mescolato a numerosi avanzi di vegetali. Conferve, giunchi, carici, scirpi; qua e là strati di erba, folti come immensi tappeti, Io coprivano. Alcune pozze ghiacciate scintillavano in molti punti sotto i raggi del sole. Né le piogge, né alcun fiume gonfiato da un’improvvisa piena, avevano potuto formare quei depositi d’acqua. Se ne doveva naturalmente concludere, che quella palude era alimentata da infiltrazioni del suolo, e così era infatti. C’era anche da temere che, durante i grandi calori, l’aria vi fosse impregnata dei miasmi, che generano le febbri malariche.

Sopra le erbe palustri, alla superficie delle acque stagnanti, volteggiava una quantità d’uccelli. I cacciatori di palude non vi avrebbero perduto un solo colpo di fucile. Anatre selvatiche, codoni, arzavole, beccaccini vivevano là a stormi, e questi volatili poco paurosi si lasciavano facilmente avvicinare.

Una fucilata a pallini avrebbe certamente colpito alcune dozzine di quegli uccelli, tanti ve n’erano. Bisognò accontentarsi di abbatterli a frecciate. Il risultato fu minimo, ma la freccia, silenziosa, offri il vantaggio di non spaventare gli uccelli, che la detonazione di un’arma da fuoco avrebbe invece dispersi per la palude in varie direzioni. I cacciatori si accontentarono dunque, per quella volta, di una dozzina di anatre, dal corpo bianco, con una fascia color cannella, testa verde, ali nere bianche e rosse, becco piatto, che Harbert riconobbe per «tadorne». Top concorse validamente alla loro cattura e il nome di esse rimase a quella parte paludosa dell’isola. I coloni avevano, dunque, là un’abbondante riserva di selvaggina palustre: venuta la stagione opportuna, si sarebbe solo trattato di sfruttarla convenientemente; era anche probabile che parecchie specie di quegli uccelli potessero essere, se non addomesticate, almeno acclimatate nelle vicinanze del lago, venendo così a trovarsi sotto mano ai consumatori.

Verso le cinque di sera, Cyrus Smith e i suoi compagni ripresero il cammino della loro dimora, attraversando la palude delle tadorne (Tadorn’s fen) e ripassarono il Mercy sul ponte di ghiaccio.

Alle otto di sera, tutti erano rientrati a GraniteHouse.

CAPITOLO XXII

LE TRAPPOLE «LE VOLPI» I PECARI «SALTO DI VENTO A NORDOVEST» TEMPESTA DI NEVE «I PANIERAI» I PIÙ GRANDI FREDDI DELL’INVERNO «LA CRISTALLIZZAZIONE DELLO ZUCCHERO D’ACERO» IL POZZO MISTERIOSO «L’ESPLORAZIONE PROGETTATA» IL PALLINO DI PIOMBO

QUEI FREDDI intensi durarono fino al 15 agosto, senza tuttavia oltrepassare il limite di gradi Fahrenheit sino allora registrato. Quando l’atmosfera era calma, la bassa temperatura si sopportava facilmente; ma quando soffiava il vento, la situazione era penosa per gente non sufficientemente vestita. Pencroffera arrivato al punto di dolersi che l’isola di Lincoln non desse asilo a qualche famiglia di orsi, piuttosto che alle volpi o alle foche, la cui pelliccia lasciava a desiderare.

«Gli orsi» diceva «sono generalmente ben vestiti e io non domanderei di meglio che di prendere loro a prestito per l’inverno il caldo cappotto che hanno addosso.»

«Ma» rispose Nab ridendo «forse gli orsi non acconsentirebbero, Pencroff, a cederti il loro mantello. Non sono mica dei San Martini!»

«Li si costringerebbe, Nab, li si costringerebbe a farlo» replicava Pencroff con tono autoritario.

Ma quei formidabili carnivori non esistevano nell’isola, o per lo meno, non s’erano ancora mostrati.

Tuttavia, Harbert, Pencroff e il giornalista tesero alcune trappole sull’altipiano di Bellavista e nei punti di accesso alla foresta. Secondo l’opinione del marinaio, ogni animale, qualunque esso fosse, sarebbe stato una buona preda e, fossero roditori o carnivori a inaugurare le trappole, sarebbero stati bene accolti a GraniteHouse.

Le trappole erano, d’altronde, molto semplici: si trattava di fosse scavate nel suolo, dissimulate da una copertura di rami e d’erbe, con nel fondo qualche esca, il cui odore potesse attirare gli animali; ecco tutto. Bisogna aggiungere che non erano state scavate a caso, ma in certi punti, ove impronte più numerose indicavano il frequente passaggio di quadrupedi. Le trappole venivano visitate tutti i giorni, e per tre volte, durante i primi giorni, vi si trovarono esemplari di quella specie di volpi che già erano state viste sulla riva destra del Mercy.

«Ah, diamine! Ma non ci sono dunque che volpi, in questo paese!» esclamò Pencroff ritirando per la terza volta uno di quegli animali dalla buca ove stava molto avvilito. «Bestie buone a nulla!»

«Ma si» disse Gedeon Spilett. «Sono buone a qualche cosa!»

«A che cosa?»

«A farne esca per attirarne altre!»

Il giornalista aveva ragione, e da allora le trappole ebbero per esca i cadaveri delle volpi.

Il marinaio aveva pure fatto dei lacci con le fibre del curry, e questi diedero miglior risultato delle trappole. Era raro che passasse giorno senza che qualche coniglio della garenna non si lasciasse prendere. Era sempre coniglio, ma Nab sapeva variare le salse, e i convitati non pensavano certo a lamentarsi.

Nondimeno, nella seconda settimana d’agosto, una volta o due le trappole misero nelle mani dei cacciatori animali che non erano le solite volpi, ma qualche cosa di più utile. Erano dei cinghiali, di quelli già segnalati a nord del lago. Pencroff non ebbe bisogno di domandare se fossero commestibili: si capiva benissimo dalla loro rassomiglianza con il maiale d’America e d’Europa.

«Ma non sono maiali,» disse Harbert «te ne prevengo, Pencroff.»

«Ragazzo mio» rispose il marinaio, chinandosi sulla trappola, e traendone, per la piccola appendice che gli serviva da coda, uno di quei rappresentanti della famiglia dei suini «lasciami credere che sono maiali!»

«E perché?»

«Perché mi fa piacere!»

«Ti piace, dunque, molto il maiale, Pencroff?»

«Il maiale mi piace molto,» rispose il marinaio «soprattutto per i suoi piedi, e se ne avesse otto invece di quattro, mi piacerebbe due volte di più.»

Quegli animali erano pecari, appartenenti a uno dei quattro generi della famiglia; erano anche della specie dei tajassu, riconoscibili dal colore scuro e dall’assenza dei lunghi canini, che armano la bocca dei loro consimili. I pecari vivono ordinariamente in branchi: era, quindi, probabile che abbondassero nelle parti boscose dell’isola. In ogni caso, erano mangiabili dalla testa ai piedi, e Pencroff non chiedeva loro di più.

Verso il 15 agosto, le condizioni atmosferiche si modificarono improvvisamente per un salto di vento al nordovest. La temperatura risalì di alcuni gradi e i vapori accumulati nell’aria non tardarono a trasformarsi in neve. Tutta l’isola si coprì di uno strato bianco, mostrandosi ai suoi abitanti sotto un aspetto nuovo. La neve cadde abbondantemente per parecchi giorni, e il suo spessore raggiunse presto i due piedi.

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