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Jules Verne: L’Isola Misteriosa

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Jules Verne L’Isola Misteriosa

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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Frattanto Cyrus Smith fu raggiunto da un servo, che gli era devoto per la vita e per la morte. Questo valoroso era un negro, nato nei possedimenti dell’ingegnere da genitori schiavi, ma che da gran tempo Cyrus Smith, abolizionista per convinzione e per sentimento, aveva reso libero. Lo schiavo, divenuto libero, non aveva voluto abbandonare il suo padrone. Lo amava tanto che sarebbe morto per lui, se fosse stato necessario. Era un giovane di trent’anni, vigoroso, agile, scaltro, intelligente, dolce e calmo, talvolta ingenuo, sempre sorridente, servizievole e buono. Si chiamava Nabuchodonosor, ma rispondeva solo al diminutivo familiare di Nab.

Quando Nab seppe che il suo padrone era stato fatto prigioniero, lasciò il Massachusetts senza esitare, arrivò davanti a Richmond, e, a forza di astuzia e scaltrezza, dopo avere rischiato venti volte la vita, riuscì a penetrare nella città assediata. Il piacere di Cyrus Smith nel rivedere il suo servitore e la gioia di Nab nel ritrovare il suo padrone, non si possono esprimere con parole.

Ma se Nab aveva potuto penetrare in Richmond, era però ben difficile uscirne, perché i prigionieri federali vi erano strettamente sorvegliati. Occorreva un’occasione straordinaria per poter tentare un’evasione con qualche probabilità di successo, e questa occasione non solo non si presentava, ma era altresì difficile farla nascere.

Intanto, Grant continuava le sue energiche operazioni. La vittoria di Petersburg gli era stata disputata a ben caro prezzo. Le sue forze, riunite a quelle di Butler, non avevano ancora ottenuto nessun risultato concreto davanti a Richmond, e nulla faceva ancora presagire che la liberazione dei prigionieri dovesse essere prossima. Il reporter, cui la fastidiosa prigionia non procurava nessun particolare interessante da notare, non poteva più resistere. Non aveva che una sola idea: uscire da Richmond a qualunque costo. Parecchie volte egli tentò la fuga, ma ne fu sempre impedito da ostacoli insormontabili.

Intanto, l’assedio continuava, e se i prigionieri avevano fretta di fuggire per raggiungere l’esercito di Grant, alcuni fra gli assediati avevano una premura non minore di fuggire per raggiungere l’esercito separatista: fra questi era un certo Jonathan Forster, sudista arrabbiato. Fatto sta che, se i prigionieri federali non potevano uscire dalla città, nemmeno i separatisti potevano farlo, perché l’esercito del Nord li stringeva da ogni parte. Il governatore di Richmond già da lungo tempo non poteva più comunicare con il generale Lee, mentre sarebbe stato del più alto interesse fargli conoscere la situazione della città, allo scopo di affrettare la marcia dell’esercito di soccorso. Jonathan Forster ebbe allora l’idea di alzarsi in pallone, per attraversare le linee assediami e arrivare così al campo dei separatisti.

Il governatore autorizzò il tentativo. Un aerostato fu costruito e messo a disposizione di Jonathan Forster, che doveva essere accompagnato nel viaggio aereo da cinque altri uomini. Erano muniti di armi, in caso che avessero dovuto difendersi atterrando, e di viveri, per l’eventualità che il loro viaggio aereo si prolungasse.

La partenza del pallone era stata fissata per il 18 marzo: doveva aver luogo di notte e, con un vento di nordovest di media forza, gli aeronauti contavano di arrivare in poche ore al quartiere generale di Lee.

Ma questo vento di nordovest non fu proprio una semplice brezza. Fin dal giorno 18 fu evidente ch’esso tendeva a mutarsi in uragano. Ben presto la tempesta divenne così violenta che la partenza di Forster dovette essere differita, giacché era impossibile arrischiare l’aerostato e gli uomini, avventurandosi fra gli elementi scatenati.

Il pallone, gonfiato sulla piazza principale di Richmond, era dunque là, pronto a partire alla prima tregua del vento e in città l’impazienza era grande, alla vista dello stato dell’atmosfera che non si modificava.

Il 18 e il 19 marzo passarono senza che alcun mutamento si verificasse nel maltempo. Si faticava, inoltre, non poco per preservare il pallone, attaccato al suolo, perché le raffiche lo schiacciavano fino a terra.

Anche la notte dal 19 al 20 trascorse; ma la mattina del 20 l’uragano si era manifestato con maggiore violenza. La partenza era impossibile.

Quel giorno, l’ingegnere Cyrus Smith fu avvicinato, in una via di Richmond, da un uomo che non conosceva. Era un marinaio di nome Pencroff, fra i trentacinque e i quarant’anni, di costituzione vigorosa, molto abbronzato, con gli occhi vivaci, dalle palpebre mobilissime, e una faccia simpatica. Questo Pencroff era un americano del nord, che aveva viaggiato su tutti i mari del globo, e al quale era accaduto, in fatto d’avventure, tutto ciò che può capitare di straordinario a un bipede implume. È inutile dire che era una natura intraprendente, pronta a tutto, e che non si meravigliava di nulla. Pencroff, al principio di quell’anno, si era recato per affari a Richmond con un giovinetto quindicenne, Harbert Brown, del NewJersey, figlio del suo capitano; un orfano che amava come se fosse stato suo figlio. Non avendo potuto lasciare la città prima dell’inizio dell’assedio, egli vi si trovò dunque bloccato, con suo immenso dispiacere, e non ebbe da allora che una sola idea: fuggire, approfittando di tutti i mezzi disponibili. Conosceva di fama l’ingegnere Cyrus Smith. Sapeva con quale impazienza quest’uomo risoluto mordeva il freno. Quel giorno egli non esitò, dunque, ad avvicinarlo, dicendogli senza preliminari di sorta:

«Signor Smith, ne avete abbastanza di Richmond?»

L’ingegnere guardò intensamente l’uomo che gli parlava così e che aggiunse subito, a bassa voce:

«Signor Smith, volete fuggire?»

«Quando?» rispose vivamente l’ingegnere. E si può affermare che questa risposta gli scappò proprio di bocca, giacché non aveva ancora osservato lo sconosciuto che gli rivolgeva la parola.

Ma dopo avere osservato con occhio penetrante il volto leale del marinaio, egli non ebbe più dubbi: comprese di trovarsi in presenza di un uomo onesto.

«Chi siete?» domandò brevemente. Pencroff si fece conoscere.

«Bene» rispose Cyrus Smith. «E con quale mezzo mi proponete di fuggire?»

«Con quello sfaticato d’un pallone, lasciato lì a far niente, e che mi sembra aspetti proprio noi!…»

Il marinaio non ebbe bisogno di completare la frase. L’ingegnere aveva compreso al volo. Afferrò Pencroff per un braccio e lo condusse a casa sua.

Là il marinaio spiegò il suo progetto, semplicissimo in verità. A metterlo in esecuzione non si rischiava che la vita. L’uragano era al massimo della sua violenza, è vero, ma un ingegnere abile e audace come Cyrus Smith avrebbe saputo certo guidare un aerostato. Se avesse saputo pilotare, lui, Pencroff, non avrebbe esitato a partire, con Harbert, naturalmente. Egli aveva visto molte altre cose e assai peggiori: non era certo uomo da spaventarsi per una tempesta!

Cyrus Smith aveva ascoltato il marinaio senza proferire parola, ma il suo sguardo brillava. L’occasione era là, pronta. Egli non era uomo da lasciarsela sfuggire. Il disegno era soltanto molto pericoloso, ma era attuabile. Nella notte, malgrado la sorveglianza, si poteva avvicinare il pallone, insinuarsi nella navicella e poi tagliare i legami che trattenevano l’apparecchio! Certamente, si rischiava di venire uccisi, ma si poteva anche riuscire: se poi non ci fosse stata quella tempesta… Ma senza quella tempesta il pallone sarebbe già partito e l’occasione, tanto cercata, non si sarebbe presentata in quel momento!

«Non sono solo!…» disse finalmente Cyrus Smith.

«Quante persone volete condurre con voi?» chiese il marinaio.

«Due: il mio amico Spilett e il mio servo Nab.»

«Con voi, fanno tre,» rispose Pencroff «e, con Harbert e me, cinque. Il pallone ne doveva portare sei…»

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