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Jules Verne: L’Isola Misteriosa

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Jules Verne L’Isola Misteriosa

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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I passeggeri gettarono gli ultimi oggetti, che appesantivano ancora la navicella, i pochi viveri che avevano conservati, tutto insomma, persino i minuscoli utensili di cui erano piene le loro tasche e uno di loro, issandosi sul cerchio in cui si riunivano tutte le funi della rete, cercò di legare solidamente l’appendice inferiore dell’aerostato.

Era evidente che i passeggeri non potevano più mantenere il pallone nelle regioni elevate dell’aria e che mancava loro il gas!

Erano dunque perduti!

Infatti, quel che si stendeva sotto di essi non era né un continente né un’isola. Lo spazio non offriva un solo punto d’atterraggio, una sola superficie solida sulla quale la loro àncora potesse prendere.

Era il mare immenso, le cui onde si urtavano ancora con incomparabile violenza! Era l’oceano senza limiti visibili, anche per loro che lo dominavano dall’alto e i cui sguardi si estendevano per un raggio di quaranta miglia! Era una pianura liquida, battuta senza pietà, sferzata dall’uragano, che doveva loro apparire come una cavalcata di onde scapigliate, sulle quali fosse stata gettata una vasta rete di creste bianche! Non una terra in vista, non un’imbarcazione!

Bisognava, dunque, arrestare a ogni costo il movimento discendente, per impedire che l’aerostato venisse inghiottito dai flutti. Evidentemente, i passeggeri della navicella erano appunto impegnati in questa urgente operazione. Ma, nonostante i loro sforzi, il pallone s’abbassava sempre più, muovendosi contemporaneamente, con estrema celerità, secondo la direzione del vento, cioè da nordest a sudovest.

Che terribile situazione per quei disgraziati! Essi, evidentemente, non riuscivano più a comandare l’aerostato. Tutti i loro tentativi rimanevano vani. L’involucro del pallone si sgonfiava sempre più. Il gas ne usciva, senza che fosse possibile trattenerlo in alcun modo. La discesa si accelerava visibilmente e, un’ora dopo mezzogiorno, la navicella era sospesa a non più di seicento piedi sopra l’oceano.

Tutto questo accadeva perché era impossibile impedire la fuga del gas, che fuorusciva liberamente da una spaccatura dell’involucro.

Alleggerendo la navicella di tutto quanto conteneva, i passeggeri avevano potuto prolungare per alcune ore la loro sospensione nell’aria. Ma la catastrofe inevitabile non poteva così che essere ritardata, e se non fosse apparsa qualche terra prima che sopraggiungesse la notte, passeggeri, navicella e pallone sarebbero definitivamente scomparsi nelle onde.

La sola manovra che ancora restasse da fare fu eseguita. I passeggeri dell’aerostato erano, evidentemente, gente energica, che sapeva guardare in faccia la morte. Non si sarebbe udito un solo lamento sfuggire dalle loro labbra. Erano decisi a lottare fino all’ultimo istante, e a fare tutto il possibile per ritardare la caduta. La navicella non era che una specie di grande paniere di vimini, inadatta a galleggiare, e non vi era alcuna possibilità di mantenerla sulla superficie del mare, se vi fosse caduta.

Alle due dopo mezzogiorno l’aerostato era appena a quattrocento piedi sopra le onde.

In quel momento una voce maschia — la voce di un uomo dal cuore inaccessibile alla paura — si fece udire. A quella voce risposero altre voci non meno energiche.

«È stato gettato tutto?»

«No! Ci sono ancora diecimila franchi d’oro! Un pesante sacco cadde subito in mare.»

«Il pallone si rialza?»

«Un poco, ma non tarderà a ricadere!»

«Che cosa resta da gettar fuori?»

«Niente!»

«Sì… la navicella!»

«Appendiamoci alla rete! E a mare la navicella!»

Questo era veramente il solo e ultimo mezzo per alleggerire l’aerostato. Le funi che tenevano sospesa la navicella al cerchio vennero tagliate e l’aerostato si rialzò di duemila piedi.

I cinque passeggeri s’erano issati sulla rete, sopra il cerchio, e si tenevano aggrappati al reticolato delle maglie, guardando l’abisso.

Si sa di quale sensibilità statica sono dotati gli aerostati. Basta sbarazzarli del più piccolo oggetto per provocarne lo spostamento in senso verticale. L’apparecchio, ondeggiando nell’aria, si comporta come una bilancia di matematica precisione. Si capisce, quindi, che quando esso viene liberato da un peso relativamente notevole, il suo movimento è notevole e brusco. Così accadde infatti in questa occasione.

Ma, dopo essersi un istante librato nelle regioni superiori dell’aria, il pallone cominciò a ridiscendere. Il gas sfuggiva attraverso lo squarcio che era impossibile riparare.

I passeggeri avevano fatto tutto quanto avevano potuto. Nessuna forza umana poteva salvarli ormai. Dovevano solo sperare nell’aiuto di Dio.

Alle quattro il pallone non era che a cinquecento piedi dalla superficie delle acque.

Un latrato si fece sentire. Un cane accompagnava i passeggeri e si teneva aggrappato, vicino al suo padrone, alle maglie della rete.

«Top ha visto qualcosa» gridò uno dei passeggeri. Subito dopo si sentì gridare ad alta voce:

«Terra! Terra!»

Il pallone, che il vento non cessava di trascinare verso sudovest, aveva percorso, dall’alba, una distanza considerevole, che si poteva calcolare a centinaia di miglia, e una terra piuttosto elevata stava, infatti, apparendo in quella direzione.

Ma quella terra si trovava ancora a trenta miglia sotto vento. Non ci voleva meno di un’ora abbondante per raggiungerla, a condizione di non derivare. Un’ora! Il pallone non si sarebbe vuotato prima di tutto il gas che ancora conteneva?

Questa era la terribile domanda che i passeggeri si rivolgevano! Essi vedevano distintamente quel punto solido che bisognava raggiungere a ogni costo. Ignoravano bensì se esso fosse isola/o continente, giacché era molto se sapevano verso quale parte del mondo l’uragano li aveva trascinati. Ma a quella terra, fosse abitata o no, dovesse essere ospitale o no, bisognava arrivare!

Ora, alle quattro, era evidente che il pallone non poteva più sostenersi. Sfiorava la superficie del mare. Già la cresta delle enormi onde aveva più volte lambito la parte inferiore della rete, appesantendola ancor più, e l’aerostato non si sollevava che a metà, come un uccello colpito nell’ala da una scarica di piombo.

Mezz’ora più tardi, la terra non era che a un miglio di distanza, ma il pallone, esaurito, floscio, allungato e tutto pieghe, conservava ancora un po’ di gas solo nella parte superiore. I passeggeri, aggrappati alla rete, pesavano troppo, e ben presto, a metà immersi nel mare, furono sferzati dalle onde furiose. L’involucro dell’aerostato prese allora la forma di una borsa e il vento, penetrando con violenza nelle pieghe, lo spinse come una nave che abbia il vento in poppa. Forse quell’impeto lo avrebbe avvicinato alla costa!

L’apparecchio non distava dalla costa che due gomene, quando risuonarono grida terribili, uscite da quattro petti contemporaneamente. Il pallone, che sembrava non doversi più rialzare, aveva fatto ancora un balzo inatteso, dopo essere stato colpito da una violentissima ondata. Come se fosse stato sbarazzato improvvisamente di una parte del suo peso, risalì a un’altezza di millecinquecento piedi, dove incontrò una specie di risucchio, che, invece di portarlo direttamente sulla costa, gli fece seguire una direzione quasi parallela. Infine, due minuti dopo, il pallone si riavvicinò alla costa obliquamente e ricadde finalmente sulla sabbia del lido, fuori della portata delle onde.

I passeggeri, aiutandosi a vicenda, riuscirono a liberarsi dalle maglie della rete. Il pallone, alleggerito del loro peso, fu riafferrato dal vento e, come un uccello ferito che ritrova un attimo di vita, disparve nello spazio.

La navicella aveva contenuto cinque passeggeri, più un cane, e il pallone non ne gettava che quattro sulla spiaggia.

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