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Jules Verne: L’Isola Misteriosa

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Jules Verne L’Isola Misteriosa

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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La fama e il successo giunsero fulminei. Lasciato l’impiego, si dedicò esclusivamente alla letteratura e un anno dopo l’altro — in base a un contratto stipulato con l’editore Hetzel — venne via via pubblicando i romanzi che compongono l’imponente collana dei «Viaggi straordinari — I mondi conosciuti e sconosciuti» e che costituiscono il filone più avventuroso della sua narrativa. Viaggio al centro della Terra, Dalla Terra alla Luna, Ventimila leghe sotto i mari, L’isola misteriosa, Il giro del mondo in 80 giorni, Michele Strogoff sono i titoli di alcuni fra i suoi libri più famosi. La sua opera completa comprende un’ottantina di romanzi o racconti lunghi, e numerose altre opere di divulgazione storica e scientifica.

Con il successo era giunta anche l’agiatezza economica, e Verne, nel 1872, si stabilì definitivamente ad Amiens, dove continuò il suo lavoro di scrittore, conducendo, nonostante la celebrità acquistata, una vita semplice e metodica. La sua produzione letteraria ebbe termine solo poco prima della morte, sopravvenuta a settantasette anni, il 24 marzo 1905.

L’ISOLA MISTERIOSA

Parte Prima

I NAUFRAGHI DELL’ARIA

CAPITOLO I

L’URAGANO DEL 1865 «GRIDA NELL’ARIA» UN PALLONE TRAVOLTO DA UNA TROMBA D’ARIA «L’INVOLUCRO LACERATO» SOLTANTO IL MARE IN VISTA «CINQUE PASSEGGERI» CHE COSA AVVIENE NELLA NAVICELLA «TERRA ALL’ORIZZONTE» L’EPILOGO DEL DRAMMA

«RISALIAMO?»

«No! Al contrario! Scendiamo!»

«Peggio ancora, signor Cyrus! Precipitiamo!»— Mio Dio! Gettate zavorra!

«Ecco vuotato l’ultimo sacco!»

«Il pallone si rialza?»

«No!»

«Sento un rumoreggiare di onde!»

«Sfido! Abbiamo il mare sotto la navicella!»

«L’acqua dev’essere a meno di cinquecento piedi sotto di noi! Allora una voce possente lacerò l’aria, e risuonarono queste parole:»

«Via tutto quello che pesa! Via tutto!… E affidiamoci alla Provvidenza divina!»

Queste parole echeggiavano seccamente nell’aria al di sopra di quel vasto deserto d’acqua che è il Pacifico, verso le quattro del pomeriggio del 23 marzo 1865.

Nessuno ha certamente dimenticato il terribile uragano di nordest, che si scatenò nel periodo dell’equinozio di quell’anno, durante il quale il barometro scese a settecentodieci millimetri. Esso durò ininterrottamente dal 18 al 26 marzo. I disastri ch’esso produsse furono immensi in America, in Europa, in Asia, su una zona di 1800 miglia di larghezza, intersecante obliquamente l’Equatore, dal trentacinquesimo parallelo nord fino al quarantesimo parallelo sud! Città sconvolte, intere foreste sradicate, spiagge devastate da montagne d’acqua che si precipitavano come controcorrenti di marea, bastimenti gettati sulla costa, che, dai rilievi del Bureau Veritas, si contarono a centinaia; territori interi furono spianati da cicloni che spazzavano tutto sul loro passaggio, parecchie migliaia di persone vennero sepolte dalle rovine in terra o inghiottite dal mare: tali furono le testimonianze che quell’uragano formidabile lasciò della sua furia. Esso superò per i suoi disastrosi effetti gli uragani che devastarono spaventosamente l’Avana e la Guadalupa, l’uno il 25 ottobre 1810, l’altro il 26 luglio 1825.

Mentre sulla terra e sul mare avvenivano tante catastrofi, un dramma, non meno emozionante, si svolgeva nell’aria sconvolta.

Infatti, un pallone, portato come una palla al vertice di una tromba e preso nel movimento circolare della colonna d’aria, percorreva lo spazio con una velocità di novanta miglia all’ora, (Nota: Ossia, 46 m al secondo, o 165 chilometri all’ora (circa quarantadue leghe di 4 chilometri). Fine nota) girando su se stesso, come se fosse stato afferrato da qualche maelström aereo.

Sotto l’appendice inferiore di questo pallone oscillava una navicella, che conteneva cinque passeggeri, appena visibili in mezzo agli spessi vapori, misti ad acqua polverizzata, che si trascinavano fin sulla superficie dell’oceano.

Da dove veniva questo aerostato, vero balocco in balia della spaventosa tempesta? Da quale punto del pianeta si era sollevato? Evidentemente, era impossibile che fosse partito mentre imperversava l’uragano. Ora, l’uragano durava già da cinque giorni, poiché i suoi primi sintomi s’erano manifestati il 18 marzo. Si poteva dunque pensare che quel pallone venisse da molto lontano, giacché non aveva certo dovuto percorrere meno di duemila miglia ogni ventiquattro ore.

A ogni modo, i passeggeri non avevano potuto avere a loro disposizione alcun mezzo per valutare il cammino percorso dalla loro partenza, perché mancava loro ogni punto di riferimento. E doveva pure verificarsi il fatto curioso che, travolti dalla violenza della tempesta, essi non la subivano. Si spostavano, giravano su se stessi, senza nulla risentire di questa rotazione, né del loro spostamento in senso orizzontale. I loro occhi non potevano penetrare la fitta nebbia che s’accumulava sotto la navicella. Attorno a essi tutto era bruma.

L’opacità delle nubi era tale ch’essi non avrebbero potuto dire se fosse giorno o notte. Nessun riflesso di luce, nessun segno di terre abitate, nessun mugghio dell’oceano doveva essere pervenuto sino a loro in quell’immensità oscura, finché s’erano tenuti nelle zone alte. Soltanto la rapida discesa li aveva resi consapevoli dei pericoli che correvano al di sopra dei flutti.

Intanto il pallone, alleggerito degli oggetti pesanti, come munizioni, armi, provviste, s’era rialzato sino agli strati superiori dell’atmosfera, a un’altezza di quattromilacinquecentopiedi. I passeggeri, avendo constatato che sotto la navicella c’era il mare, e giudicando esservi meno pericoli da temere in alto che in basso, non avevano esitato a gettar via tutti gli oggetti, compresi i più utili; essi si sforzavano di non perdere nulla di quel gas, anima del loro apparecchio, che ancora li sosteneva sopra l’abisso.

La notte passò fra inquietudini che sarebbero state mortali per anime meno energiche. Poi si fece giorno e, col giorno, l’uragano sembrò moderarsi alquanto. Fin dall’inizio di quella giornata del 24 marzo, si ebbe qualche sintomo che la situazione andava migliorando. All’alba, le nubi, più rarefatte, erano risalite nel cielo. In poche ore la tromba d’aria si dilatò e s’infranse. Il vento passò dall’uragano al «vento forte», vale a dire la velocità di traslazione degli strati atmosferici si ridusse della metà. Restava ancora quello che i marinai chiamano «una brezza da tre mani di terzarolo»; ma il miglioramento verificatosi nella perturbazione degli elementi non fu perciò meno considerevole.

Verso le undici la parte più bassa dell’atmosfera si era alquanto schiarita. L’aria era di una limpidità umida, come quella che si vede, e anche si sente, dopo il passaggio dei grandi fenomeni atmosferici. Non pareva che la tempesta si fosse allontanata verso ovest. Sembrava che si fosse esaurita da sola. Forse, dopo la rottura della tromba, si era sfaldata in strati elettrici, così come accade talvolta ai tifoni dell’Oceano Indiano.

Ma, verso quella medesima ora, si sarebbe potuto constatare che il pallone scendeva di nuovo lentamente, ma continuamente, negli strati inferiori dell’aria. Sembrava, inoltre, che si sgonfiasse a poco a poco e che il suo involucro si allungasse distendendosi, passando, cioè, dalla forma sferica alla forma ovoidale.

Verso mezzogiorno, l’aerostato si librava a soli duemila piedi sul mare. Esso stazzava cinquantamila piedi cubi (Nota: Circa 1.700 metri cubi. Fine nota) e, grazie a questa sua capacità, aveva evidentemente potuto mantenersi a lungo nell’aria, sia che avesse raggiunto grandi altezze, sia che si fosse spostato seguendo una direzione orizzontale.

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