Rimanevano due difficoltà: prima di tutto, la possibilità di illuminare quello spazio vuoto scavato in un blocco compatto; secondariamente, la necessità di renderne l’accesso più agevole. Non bisognava neppur pensare a far venire la luce dall’alto, giacché un enorme spessore di granito costituiva il soffitto della caverna; ma si sarebbe forse potuto forare la parete anteriore, in faccia al mare. Cyrus Smith, che durante la discesa aveva valutato con una certa approssimazione la pendenza, e di conseguenza la lunghezza del sotterraneo, era indotto a credere che la parte anteriore della muraglia non fosse molto spessa. Se si fosse ottenuta in tal modo l’illuminazione, anche l’accesso alla caverna sarebbe stato un fatto compiuto, giacché fare una porta sarebbe stato altrettanto facile che fare delle finestre, nonché costruire una scala esterna.
Cyrus Smith comunicò le sue idee ai compagni.
«Allora, signor Cyrus, all’opera!» rispose Pencroff. «Ho il mio piccone e saprò farmi luce attraverso questo muro. Dove bisogna colpire?»
«Qui» rispose l’ingegnere, indicando al vigoroso marinaio un incavo assai notevole della parete, che doveva diminuirne lo spessore.
Pencroff attaccò il granito, e per una mezz’ora, al chiarore delle torce, ne fece volare le schegge intorno a sé. La roccia mandava scintille sotto il suo piccone. Nab gli diede il cambio, e dopo Nab, anche Gedeon Spilett.
Questo lavoro durava già da due ore, per cui si poteva dunque temere che in quel punto lo spessore della muraglia eccedesse la lunghezza del piccone, quando, a un ultimo colpo vibrato da Gedeon Spilett, lo strumento, passando attraverso il muro, cadde al di fuori.
«Evviva! sempre evviva!» gridò Pencroff.
La muraglia di duro granito non misurava in quel punto che tre piedi di spessore.
Cyrus Smith mise l’occhio all’apertura, alta ottanta piedi dal suolo. Dinanzi a lui si stendeva la battigia, l’isolotto, e più oltre il mare immenso.
Per quel foro, abbastanza largo giacché la roccia si era largamente frantumata, la luce entrò a fiotti e produsse un effetto magico inondando quella splendida caverna! Se nella sua parte sinistra essa non misurava più che trenta piedi d’altezza e di larghezza su una lunghezza di cento piedi, nella parte destra, invece, essa era enorme, e la sua volta s’arrotondava a più di ottanta piedi d’altezza. In alcuni punti, dei pilastri di granito, irregolarmente disposti, sostenevano gli spigoli della volta, come quelli di una navata di cattedrale. Appoggiata su delle specie di piedritti laterali, qui abbassantesi su tonde campate, là elevantesi su modanature ogivali, perdentesi in oscure gallerie, di cui si intravedevano nell’ombra gli archi capricciosi, ornata a profusione di sporgenze, che formavano come tanti pennacchi, quella volta offriva un pittoresco miscuglio di tutto quanto le architetture bizantina, romanica e gotica hanno prodotto sotto la mano dell’uomo. E qui, invece, era tutta opera della natura! Essa sola aveva scavato questo fantastico Alhambra in un masso di granito!
I coloni erano attoniti per l’ammirazione. Dove essi non credevano di trovare che una angusta cavità, trovavano invece una specie di palazzo meraviglioso, e Nab s’era scoperto, come se fosse stato in un tempio!
Grida d’ammirazione erano partite da tutte le bocche. Gli evviva si elevavano e andavano a perdersi di eco in eco sino in fondo alle oscure navate.
«Ah! Amici,» esclamò Cyrus Smith «quando avremo abbondantemente rischiarato l’interno di questa massa granitica, quando avremo allestito le nostre camere, i depositi, le dispense nella parte sinistra, ci rimarrà ancora questa splendida caverna, della quale faremo la nostra sala di studio e il nostro museo!»
«E come lo chiameremo?» domandò Harbert.
«GraniteHouse (Nota: Palazzo di granito. La parola house si applica ugualmente ai palazzi e alle case. Così Buckinghamhouse o Mansionhouse, a Londra. Fine nota) rispose Cyrus Smith; e i suoi compagni salutarono quel nome con nuovi evviva.
Le torce erano ormai quasi interamente consumate, e siccome per ritornare bisognava riguadagnare la sommità dell’altipiano; risalendo il lungo cunicolo fu deciso di rimettere all’indomani i lavori relativi alla sistemazione della nuova dimora.
Prima di prendere la via del ritorno, Cyrus Smith si chinò ancora una volta al di sopra del pozzo scuro, che si sprofondava perpendicolarmente fino al livello del mare. Ascoltò attentamente. Non si udì nessun rumore, nemmeno quello delle acque, che pure il moto ondoso oceanico doveva talvolta agitare in quelle profondità. Fu gettato ancora un rametto di resina acceso. Le pareti del pozzo si rischiararono per un istante; ma anche questa volta, come prima, nulla di sospetto si rivelò. Se qualche mostro marino era stato inopinatamente sorpreso dal ritirarsi delle acque, esso aveva ormai ripreso il largo per mezzo del condotto sotterraneo che si prolungava fin sotto la spiaggia e che l’eccesso dell’acqua del lago già percorreva, prima che un nuovo passaggio le fosse stato offerto.
Però, l’ingegnere, immobile, l’orecchio attento, lo sguardo immerso nella voragine, non pronunciava una parola.
Il marinaio allora gli si avvicinò, e toccandogli il braccio:
«Signor Smith?» disse.
«Che cosa volete, amico?» rispose l’ingegnere, come se fosse tornato dal paese dei sogni.
«Le torce stanno per spegnersi.»
«In cammino!» rispose Cyrus Smith.
La piccola comitiva abbandonò la caverna e cominciò la sua ascensione attraverso l’oscuro corridoio. Top chiudeva la marcia, e faceva udire ancora degli strani brontolii. L’ascensione fu assai penosa. I coloni sostarono alcuni istanti nella grotta superiore, che formava come una specie di pianerottolo, a metà di quella lunga scala di granito. Poi ricominciarono a salire.
Poco dopo si fece sentire un’aria più fresca. Le goccioline, asciugate dall’evaporazione, non scintillavano più sulle pareti. Il chiarore fuligginoso delle torce impallidiva. Quella portata da Nab si spense, così che per non avventurarsi in mezzo a un’oscurità profonda, fu necessario affrettarsi.
In tal modo, un po’ prima delle quattro, nel momento in cui la torcia del marinaio si spegneva a sua volta, Cyrus Smith e i suoi compagni sboccavano dall’apertura all’aria aperta.
CAPITOLO XIX
IL PIANO DI CYRUS SMITH «LA FACCIATA DI GRANITEHOUSE» LA SCALA DI CORDA «I SOGNI DI PENCROFF» LE ERBE AROMATICHE «UNA CONIGLIERA NATURALE» DERIVAZIONE DELLE ACQUE PER I BISOGNI DELLA NUOVA DIMORA «LA VISTA CHE SI GODE DALLE FINESTRE DI GRANITEHOUSE»
L’INDOMANI, 22 maggio, furono iniziati i lavori di adattamento della nuova residenza. I coloni, infatti, non vedevano l’ora di cambiare il loro insufficiente ricovero dei Camini con quel vasto e sano rifugio, scavato nella viva roccia, al riparo dalle acque del mare e del cielo. I Camini, tuttavia, non dovevano essere interamente abbandonati ed era intenzione dell’ingegnere di farne un laboratorio per i lavori più pesanti.
Il primo pensiero di Cyrus Smith fu di rendersi conto del punto preciso su cui dava la facciata di GraniteHouse. Si recò sulla spiaggia, ai piedi dell’enorme muraglia, e, siccome il piccone sfuggito dalle mani del giornalista doveva essere caduto perpendicolarmente, bastava ritrovare quel piccone per poter stabilire il punto, ove era stato praticato il foro nel granito.
Il piccone fu facilmente ritrovato, e infatti, un buco si apriva in linea perpendicolare al di sopra del punto ove esso s’era conficcato nella sabbia, a circa ottanta piedi sopra la spiaggia. Dei piccioni di roccia entravano e uscivano già dalla stretta apertura. Pareva proprio che GraniteHouse fosse stata scoperta apposta per loro!
L’intenzione dell’ingegnere era di dividere la parte destra della caverna in più stanze, precedute da un corridoio d’entrata e di darvi luce mediante cinque finestre e una porta da aprirsi nella facciata. Pencroff ammetteva le cinque finestre, ma non comprendeva l’utilità della porta, dato che l’antico sbocco offriva una scala naturale, per la quale sarebbe sempre stato facile accedere a GraniteHouse.
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