Jules Verne - L’Isola Misteriosa

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L’Isola Misteriosa: краткое содержание, описание и аннотация

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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Era verso il recinto che la lava si dirigeva in seguito all’orientamento del nuovo cratere; di conseguenza le parti fertili dell’isola, le sorgenti del Creek Rosso, i boschi dello Jacamar erano minacciati di una distruzione immediata.

Al grido di Ayrton, i coloni s’erano precipitati verso la stalla degli onagri. Il carro era stato attaccato, Tutti non avevano che un pensiero! Correre al recinto e mettere in libertà gli animali che vi erano chiusi.

Prima delle tre del mattino erano giunti al recinto. Spaventosi ululati indicavano chiaramente quale era lo spavento dei mufloni e delle capre. Un torrente, di materie incandescenti, di minerali liquefatti cadeva già dal contrafforte sulla prateria e rodeva quel lato della palizzata. La porta fu bruscamente aperta da Ayrton e gli animali fuggirono come pazzi in tutte le direzioni.

Un’ora dopo, la lava ribollente empiva il recinto, volatilizzava l’acqua del ruscelletto che l’attraversava, incendiava l’abitazione, che arse come una stoppia, e divorò sino all’ultimo palo dello steccato. Del recinto non rimaneva più nulla!

I coloni, però, vollero lottare contro questa invasione, e vi si provarono, ma la loro fu una follia inutile, giacché l’uomo è disarmato di fronte a questi grandi cataclismi.

Era sorto il nuovo giorno, il 24 gennaio. Cyrus Smith e i suoi compagni, prima di tornare a GraniteHouse, vollero osservare la direzione definitiva, che stava per prendere quell’inondazione di lava. La pendenza generale del suolo s’abbassava dal monte Franklin alla costa est e c’era, quindi, da temere che, nonostante i fitti boschi dello Jacamar, il torrente si propagasse sino all’altipiano di Bellavista.

«Il lago ci proteggerà» disse Gedeon Spilett.

«Lo spero!» rispose Cyrus Smith, e fu tutta la sua risposta.

I coloni avrebbero voluto avanzare sino alla pianura, su cui s’era abbattuto il cono superiore del monte Franklin, ma la lava sbarrava loro il passaggio. Essa seguiva, da una parte, la vallata del Creek Rosso, e dall’altra, la vallata del fiume della Cascata, facendo evaporare questi due corsi d’acqua sul suo passaggio. Non c’era alcuna possibilità di attraversare quel torrente infocato; bisognava, invece, indietreggiare davanti a esso. Il vulcano, senza il cono, non era più riconoscibile. Terminava ormai con una specie di tabula rasa, che aveva preso il posto dell’antico cratere. Per due brecce nel suo orlo sui fianchi sud ed est, traboccava continuamente la lava, che formava così due torrenti distinti. Sopra al nuovo cratere, una nube di fumo e di ceneri si confondeva con i vapori del cielo, ammassati sull’isola. Tremendi scoppi di tuono si propagavano e si confondevano con i boati della montagna, dalla cui bocca sfuggivano rocce ignee che, lanciate a più di mille piedi, esplodevano nella nube, disperdendosi poi come mitraglia. Il cielo rispondeva con lampeggiamenti all’eruzione vulcanica.

Verso le sette della mattina, i coloni, rifugiatisi al confine del bosco dello Jacamar, non potevano più tenere la posizione. Non solo i proiettili cominciavano a piovere loro d’attorno, ma la lava, straripando dal letto del Creek Rosso, minacciava di tagliare la strada del recinto. Le prime file d’alberi presero fuoco e la loro linfa, subitamente trasformata in vapore, li fece esplodere come mortaretti, mentre altri, meno umidi, rimanevano intatti in mezzo all’inondazione.

I coloni avevano ripreso la via del recinto. Procedevano lentamente, a ritroso, per così dire. Ma, a causa dell’inclinazione del suolo, il torrente avanzava rapidamente verso est e, appena alcuni strati di lava s’erano solidificati, altre distese ribollenti sopraggiungevano tosto a ricoprirli.

Intanto, la principale corrente della vallata del Creek Rosso diventava sempre più minacciosa. Tutta quella parte della foresta era incendiata ed enormi spire di fumo volteggiavano al di sopra degli alberi, ai cui piedi crepitava già la lava.

I coloni si fermarono presso il lago, a circa mezzo miglio dalla foce del Creek Rosso. Una questione di vita o di morte stava decidendosi per loro.

Cyrus Smith, avvezzo a guardare in faccia le situazioni gravi e sapendo di rivolgersi a uomini capaci di ascoltare la verità, qualunque essa fosse, disse allora:

«O il lago arresterà la corrente, e in questo caso una parte dell’isola sarà preservata dalla completa devastazione, o la corrente invaderà le foreste del Far West, e allora non un albero, non una pianta rimarrà alla superficie del suolo. Non avremo allora, su queste rocce denudate, altra prospettiva che la morte, che, per l’esplosione dell’isola, non si farà molto aspettare!»

«Allora,» esclamò Pencroff, incrociando le braccia e battendo il piede a terra «è inutile lavorare al bastimento, vi pare?»

«Pencroff,» rispose Cyrus Smith «bisogna fare il proprio dovere fino all’ultimo!»

In quel mentre il fiume di lava, dopo essersi aperto un passaggio attraverso i begli alberi che divorava, arrivò al limite del lago. Là esisteva un certo rialzo del suolo che, se fosse stato di maggiori proporzioni, sarebbe bastato a contenere il torrente.

«All’opera!» gridò Cyrus Smith.

Il pensiero dell’ingegnere fu immediatamente compreso. Bisognava arginare quel torrente e obbligarlo così a scaricarsi nel lago.

I coloni corsero al cantiere. Ne ritornarono con delle vanghe, delle zappe, delle scuri, e a furia di terra accumulata e d’alberi abbattuti, essi riuscirono a elevare in alcune ore una diga alta tre piedi e lunga alcune centinaia di passi. Quand’ebbero finito, parve loro di aver lavorato appena pochi minuti!

Era tempo. Le materie liquefatte raggiunsero quasi subito la parte inferiore dello spalto. Il fiume lavico si gonfiò, come un corso d’acqua in piena che cerchi di straripare, e minacciò di superare il solo ostacolo che potesse impedirgli d’invadere tutto il Far West… Ma la diga riuscì a contenerlo e, dopo un minuto d’esitazione, che fu terribile, si precipitò nel lago Grant, con una cascata alta venti piedi.

I coloni, ansanti, senza fare un gesto, senza pronunciar parola, guardarono allora quella lotta dei due elementi.

Quale spettacolo quel combattimento fra l’acqua e il fuoco! Quale penna potrebbe descrivere questa scena di orrore meraviglioso e quale pennello potrebbe dipingerla? L’acqua sibilava evaporandosi al contatto della lava ardente. I vapori, proiettati nell’aria, turbinavano a un’altezza incommensurabile, come se le valvole di un’immensa caldaia fossero state aperte improvvisamente. Ma per quanto considerevole fosse la massa d’acqua contenuta nel lago, doveva pur finire per evaporare tutta, giacché non si rinnovava, mentre il torrente lavico, alimentandosi a una fonte inesauribile, riversava incessantemente nuovi fiotti di materie incandescenti.

La prima lava che cadde nel lago si solidificò immediatamente e s’accumulò, in modo da emergere molto presto. Sulla sua superficie scese poi altra lava, che si fece pietra a sua volta, ma avanzando verso il centro del lago. Una diga si formò, che minacciò di colmare il lago, il quale non poteva traboccare, perché l’eccedenza delle acque si dissipava in vapore. Sibili e crepitii laceravano l’aria con rumore assordante e i vapori umidi, trascinati dal vento, ricadevano in pioggia sul mare. La diga si allungava e i blocchi di lava solidificata s’ammucchiavano gli uni sugli altri. Là dove si stendevano un tempo le acque tranquille, appariva ora un enorme cumulo di macigni fumanti, come se un sollevamento del suolo avesse fatto emergere migliaia di scogli. Si pensi ad acque sconvolte durante un uragano, poi improvvisamente solidificate da una temperatura di venti gradi sotto zero, e si avrà l’aspetto del lago, tre ore dopo che l’irresistibile torrente vi ebbe fatto irruzione.

Stavolta l’acqua sarebbe stata inevitabilmente vinta dal fuoco.

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