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Jules Verne: L’Isola Misteriosa

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Jules Verne L’Isola Misteriosa

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Questo straordinario romanzo presenta non poche analogie con Robinson Crusoe, dello scrittore inglese Defoe, di cui Verne era un grande ammiratore. Anche qui, la situazione è press’a poco la stessa: alcuni naufraghi approdano fortunosamente su un’isola deserta e lottano disperatamente per sopravvivere. Ma se Robinson, di fronte alla natura selvaggia, incarnava l’uomo del ‘700, che si industria come può, ricorrendo ai piccoli espedienti suggeritigli dalla ragione, senza altri strumenti che le proprie mani, i cinque naufraghi protagonisti di questo libro incarnano la nuova idea dell’uomo «scientifico» qual era concepito nella seconda metà dell’800, l’uomo che domina ormai la natura in virtù di una tecnologia progredita che gli permette di trasformare rapidamente un’isola selvaggia in una colonia civile. Non a caso Robinson è un uomo comune, un marinaio, ed è solo, a lottare contro le forze cieche della natura, mentre qui siamo dì fronte a una vera e propria équipe, composta da persone di estrazione e di competenze diverse, ma guidata da un ingegnere e scienziato, Cyrus Smith…

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Nondimeno, fu per i coloni una favorevole circostanza che l’invasione lavica avesse potuto esser diretta verso il lago Grant. Avevano così davanti a loro alcuni giorni di respiro. L’altipiano di Bellavista, GraniteHouse e il cantiere erano momentaneamente preservati. Ora, questi pochi giorni bisognava usarli per finire il fasciame della nave e per calafatarla con cura. Poi l’avrebbero varata, e vi si sarebbero rifugiati, salvo ad attrezzarla dopo, quando fosse nel suo elemento. Con il timore dell’esplosione, che minacciava di distruggere l’isola, non vi era più nessuna sicurezza a terra. L’asilo costituito da GraniteHouse, così sicuro fino allora, poteva a ogni momento richiudere le sue pareti di granito.

Durante i sei giorni che seguirono, dal 25 al 30 gennaio, i coloni lavorarono al bastimento come venti uomini. Prendevano appena qualche riposo, e il chiarore delle fiamme, che scaturivano dal cratere, permetteva loro di lavorare notte e giorno. L’eruzione continuava sempre, ma forse un po’ meno abbondantemente. E fu gran ventura, giacché il lago Grant era quasi interamente colmo, e se nuova lava fosse discesa a sovrapporsi alla precedente, avrebbe inevitabilmente invaso l’altipiano di Bellavista e dopo questo la spiaggia.

Ma se da quel lato l’isola era in parte protetta, non lo era egualmente dalla parte occidentale.

Infatti, la seconda corrente di lava, che aveva seguito la vallata del fiume della Cascata, vallata ampia, i cui terreni s’abbassavano da ciascun lato del creek, non poteva trovare alcun ostacolo. Il liquido incandescente s’era, dunque, propagato nella foresta del Far West. In quella stagione dell’anno le piante erano state essiccate da un calore torrido, e la foresta prese, quindi, fuoco con si fulminea rapidità, che l’incendio si propagò a un tempo alla base dei tronchi e ai rami, il cui intreccio favoriva i progressi del fuoco. Sembrava persino che la corrente di fiamme, alla cima degli alberi, si scatenasse più velocemente che la corrente di lava ai loro piedi.

Accadde allora che gli animali «le belve e le altre bestie, giaguari, cinghiali, capibara, la selvaggina di pelo e di piuma — pazzi di terrore, si rifugiarono dalla parte del Mercy e nella palude delle tadorne, al di là della strada di Porto Pallone. Ma i coloni erano troppo occupati nel. loro lavoro per fare attenzione anche ai più temibili fra questi animali. Avevano, d’altronde, abbandonato GraniteHouse e non avevano nemmeno voluto cercar ricovero ai Camini; si erano accampati sotto una tenda, presso la foce del Mercy.»

Ogni giorno Cyrus Smith e Gedeon Spilett salivano all’altipiano di Bellavista. Harbert qualche volta li accompagnava, ma Pencroff mai, che egli non voleva vedere l’isola sotto il suo nuovo aspetto, e così miseramente devastata!

Era, infatti, uno spettacolo desolante. Tutta la parte boschiva dell’isola era oramai denudata. Un solo gruppo d’alberi verdi si rizzava ancora all’estremità della penisola Serpentine. Qua e là si scorgevano grossi ceppi sfrondati e anneriti. L’area delle foreste distrutte era più arida che la palude delle tadorne. L’invasione da parte della lava era stata completa. Dove prosperava un tempo tutto quel verde, il suolo non era ormai che un selvaggio accumulo di tufi vulcanici. Le vallate del fiume della Cascata e del Mercy non avevano più una sola goccia d’acqua e i coloni non avrebbero avuto alcun mezzo di dissetarsi, se il lago Grant fosse stato interamente prosciugato. Ma, fortunatamente, la punta sud di esso era stata risparmiata e formava una specie di stagno, contenente tutto quanto rimaneva di acqua potabile nell’isola. Verso nordest si delineavano, in aspre e vive creste, i contrafforti del vulcano, che sembravano un gigantesco artiglio affondato nel suolo. Che spettacolo doloroso, che spaventoso aspetto e quale dolore per quei poveri coloni, che da un dominio fertile, coperto di foreste, irrigato da corsi d’acqua, ricco di raccolti, si trovavano di colpo trasportati su una roccia devastata, la quale, se non fosse stato per le loro riserve, non avrebbe loro dato nemmeno da vivere!

«Tutto questo spezza il cuore!» disse un giorno Gedeon Spilett.

«Sì, Spilett» rispose l’ingegnere. «Il Cielo ci dia il tempo di finire questo bastimento, ormai nostro solo rifugio!»

«Non vi pare, Cyrus, che il vulcano sembra volersi calmare? Erutta ancora della lava, ma meno abbondantemente, se non m’inganno.»

«Poco importa» rispose Cyrus Smith. «Il fuoco è sempre ardente nelle viscere della montagna e il mare può precipitarvisi da un momento all’altro. Noi siamo nella situazione di passeggeri su una nave divorata da un incendio, che essi non possono estinguere, e che sanno che questo, presto o tardi, raggiungerà la cala delle polveri. Venite, Spilett, venite, e non perdiamo un’ora!»

Per otto giorni ancora, vale a dire sino al 7 febbraio, la lava continuò a scorrere, ma l’eruzione si mantenne nei limiti indicati. Cyrus Smith temeva soprattutto che le materie liquefatte andassero a riversarsi sulla spiaggia, nel qual caso il cantiere non sarebbe stato risparmiato. Inoltre, i coloni cominciarono a sentire che l’isola aveva delle vibrazioni e ne furono inquietissimi.

Era il 20 febbraio. Occorreva ancora un mese prima che il bastimento fosse in grado di prendere il mare. L’isola avrebbe resistito fino allora? L’intenzione di Pencroff e di Cyrus Smith era di procedere al varo della nave, appena lo scafo fosse stato sufficientemente stagno. Il ponte, le soprastrutture, l’allestimento interno e l’attrezzatura sarebbero stati fatti dopo, ma l’essenziale era che i coloni avessero un rifugio assicurato fuori dell’isola. Fors’anche sarebbe stato bene condurre la nave a Porto Pallone, cioè più lontano ch’era possibile dal centro eruttivo, giacché alla foce del Mercy, fra l’isolotto e la muraglia di granito, correva rischio d’essere schiacciata, nel caso di una dislocazione geologica dell’isola. Tutti gli sforzi dei lavoratori mirarono, dunque, al compimento dello scafo.

Arrivarono così al 3 marzo e poterono allora calcolare che l’operazione del varo sarebbe stata possibile entro una decina di giorni.

La speranza rifiorì nel cuore dei coloni, tanto provati durante quel quarto anno del loro soggiorno all’isola di Lincoln! Pencroff stesso parve uscire dal cupo mutismo in cui l’aveva piombato la rovina e la devastazione del suo dominio. Ormai egli non pensava che a quel bastimento, su cui si concentravano tutte le sue speranze.

«Lo finiremo,» diceva all’ingegnere «lo finiremo, signor Cyrus; ed è tempo, perché la stagione s’avanza e presto saremo in pieno equinozio. Se occorre, si farà sosta all’isola di Tabor per passarvi l’inverno! Ma, l’isola di Tabor, dopo l’isola di Lincoln! Ah, che sciagura! Non avrei mai creduto di vedere una cosa simile!»

«Affrettiamoci!» rispondeva invariabilmente l’ingegnere. E tutti lavoravano senza perdere un minuto.

«Padrone,» chiese Nab alcuni giorni dopo «credete voi che, se il capitano Nemo fosse ancora vivo, tutto questo sarebbe accaduto ugualmente?»

«Sì, Nab» rispose Cyrus Smith.

«Ebbene, io non lo credo!» mormorò Pencroff all’orecchio di Nab.

«Neanch’io!» rispose seriamente Nab.

Durante la prima settimana di marzo, il monte Franklin ridivenne minaccioso. Migliaia di vetri filiformi di lava fluida caddero come pioggia sul suolo. Il cratere s’empì di nuovo di lava, che si sparse su tutte le pendici del vulcano. Il torrente di lava corse alla superficie dei tufi induriti e finì di distruggere i pochi scheletri d’alberi che avevano resistito alla prima eruzione. Quella corrente, seguendo questa volta la riva sudovest del lago Grant, superò il Creek Glicerina e invase l’altipiano di Bellavista. Quest’ultimo colpo, che s’abbatteva sull’opera dei coloni, fu terribile. Del mulino, delle costruzioni del cortile rustico, delle stalle, non rimase più nulla. I volatili, spaventati, fuggirono in tutte le direzioni. Top e Jup davano segni del più grande sgomento: il loro istinto li avvertiva che una catastrofe era prossima. Molti animali dell’isola erano periti durante la prima eruzione. Quelli ch’erano sopravvissuti non trovarono altro rifugio che la palude delle tadorne, salvo alcuni, cui l’altipiano di Bellavista offrì ancora asilo. Ma anche quest’ultimo ricovero fu loro alla fine precluso, e il fiume di lava, scavalcando la cresta della muraglia granitica, cominciò a precipitare sulla spiaggia le sue cateratte di fuoco. Il sublime orrore di quello spettacolo sfugge a ogni descrizione. Durante la notte si sarebbe detto un Niagara di metallo fuso, con i vapori incandescenti in alto e le masse ribollenti in basso!

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