Guido Pagliarino - Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano
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Poco dopo il sorgere del sole sul suo ultimo giorno di vita, Gionata Paolo aveva assunto la prima colazione nella locanda in compagnia del nipote, poi i due sâerano divisi per occuparsi ciascuno dei propri affari; così, al momento dellâaggressione lo zio sarebbe stato solo col suo assassino. Avevano stabilito di ritrovarsi verso il tramonto alla locanda, châera non lontana dalla viuzza dove il padre di Marco sarebbe stato trovato da una ronda di polizia morto ammazzato, per far cena e riposare fino allâalba, dopo di che il fariseo avrebbe pagato e ritirato i suoi tappeti e il levita i propri sacchi di sementi e, coi rispettivi carichi, i parenti sarebbero ripartiti quella mattina con la stessa nave che li aveva portati a Perge.
Barnaba aveva passato la giornata visitando alcuni grossisti di granaglie, con una breve pausa verso mezzodì per un leggero pasto di frutta consumato in piedi presso il venditore. Aveva trovato i chicchi giusti, per qualità e prezzo, solo a fine pomeriggio. Lasciata una caparra al fornitore, era tornato alla pensione, giungendovi quando il sole era da poco sceso dietro lâorizzonte. Non appena entrato aveva saputo dallâalbergatore, senzâalcun delicato preambolo, dellâomicidio dello zio: Matteo Bar Beniamino, tornando poco prima a casa da una commissione, era passato per la stradina dove giaceva il cadavere, attorniato da uomini dâuna ronda di polizia, e aveva riconosciuto nel morto il proprio cliente: âEra stato ucciso da pocoâ, aveva precisato allâattonito levita, âlo so perché una delle guardie stava dicendo ai colleghi che il corpo era ancora tepido; poi lâavevano caricato sopra un carretto, immagino requisito lì per lìâ. Era prassi delle ronde dâordine pubblico portare in caserma ogni salma ignota raccolta per via, fatto tuttâaltro che infrequente, dovâera tenuta in deposito in una cantina fin allâalba del dopodomani, nellâeventualità che un parente si fosse presentato a riconoscerlo e reclamarlo; se no, il morto veniva seppellito nelle prime ore del posdomani nella fossa comune di Perge.
Le funzioni dellâorganismo di polizia della città , composto da un centinaio dâuomini al comando dâun centurione, erano simili a quelle della Milizia dei Vigili dellâUrbe, creata nel 758 1 bisda Ottaviano Cesare Augusto e imitata in varie città dellâimpero. Venivano esercitate mansioni generali di polizia e la prevenzione e lo spegnimento dâincendi nonché, legati alle prime, lâindividuazione e lâarresto di chi li avesse provocati per dolo o anche solo per negligenza. Alla base dellâattività della centuria stavano ronde continue per la città di squadre di dieci uomini. Gaio Tullio, comandante della decuria che sâera imbattuta nella salma di Gionata Paolo, dopo aver interrogato brevemente gli abitanti della zona, i quali avevano dichiarato di non aver visto né udito nulla, aveva rinunciato a indagare: in quei tempi era normale che la maggior parte dei delitti restasse impunita, trovare i colpevoli non sorpresi in flagrante era improbabile quasi come individuare una particolare formica in un formicaio.
Il locandiere aveva riportato ancora a Barnaba dâaver detto al decurione che la vittima era stata sua cliente, aggiungendo che avrebbe avvisato della tragedia un altro avventore, che aveva stanza con la vittima e ne era parente, perché, volendo, ne richiedesse la spoglia.
La sera stessa, nonostante lâoscurità , ottenuta una lanterna dallâalbergatore il nipote del morto sâera presentato alla sede dei militi, non eccessivamente distante, per reclamare il corpo dello zio. Aveva parlato con un decurione in servizio al corpo di guardia. Il sottufficiale lâaveva condotto dal comandante della caserma, un giovane centurione di nome Giunio Marcello. Costui, dopo aver ascoltato la richiesta di Barnaba, aveva convocato il decurione Gaio Tullio e, in sua presenza, aveva detto al levita: âBene, mi hai detto di chiamarti Giuseppe Barnaba e dâessere di Salamina; adesso voglio sapere cosa siete venuti a fare a Perge tu e la vittimaâ.
âIo a comprare sementi per i miei campi e lo zio tappeti per il suo bazar in Gerusalemmeâ.
âPoiché câè anche una borsa del morto da ritirare, dimmi come puoi dimostrare dâessere suo nipoteâ.
âLo può confermare Matteo Bar Beniamino, padrone della locanda dove io e lo zio abbiamo preso una stanza assiemeâ.
Sâera intromesso Gaio Tullio: âComandante, Matteo Bar Beniamino è lâindividuo che ho citato nel mio rapporto, che ha riconosciuto la vittima dellâomicidio e mi ha detto ne avrebbe informato il nipoteâ.
âVa bene, comunque tra poco controlleremo se quel nipote è proprio costuiâ. Sâera volto a Barnaba: âTu, intanto, dimmi dove e con chi hai trascorso oggi le ultime ore di luceâ.
A quanto sembrava sospettava di lui, come aveva recepito il levita con preoccupazione; e aveva fatto il nome del grossista di granaglie.
Il centurione, avuti glâindirizzi del commerciante e dellâalbergatore, aveva ordinato a Gaio Tullio di prendere una guardia con sé e accompagnare il levita alle residenze dei due testimoni, per un confronto.
Il grossista aveva testimoniato che quel suo cliente era stato da lui fin al tramonto, lâalbergatore che Barnaba era arrivato alla locanda a sole appena calato, col cielo non ancor del tutto buio, e che il giorno prima lâuomo e il defunto sâerano presentati come parenti nel prendere stanza.
Ascoltato il rapporto di Gaio Tullio, il comandante aveva concesso allâaccertato nipote di ritirare, alle prime luci, la salma dello zio. Sùbito gliene aveva consegnato la borsa, contenente solo monete dâoricalco, sei sesterzi e due dupondi, in uno dei due scomparti, per gli spiccioli, mentre lâaltro, per le monete dâoro e i denari dâargento, era vuoto. Barnaba sapeva che il parente avrebbe dovuto possedere ancora molta pecunia per saldare i tappeti e pagarsi il viaggio di ritorno e aveva pensato a un furto, non da parte omicida, però, ma di guardie, il centurione stesso? Aveva ragionato: perché mai un rapinatore di strada avrebbe dovuto attardarsi a togliere le monete di valore lasciando la minutaglia, invece di carpire semplicemente la borsa come tutti i grassatori fanno, e fuggire prima che qualcuno potesse sopraggiungere? Nondimeno, per evitare contrattempi e forse guai, il levita aveva tenuto il sospetto per sé.
Dopo una notte di sonno sbattuto, allâapertura dei bazar Barnaba aveva acquistato una sindone, un sudario e unguenti sepolcrali e preso accordi con un paio di greci, di professione scalpellini, tagliapietre e affossatori, che avevano bottega nella stessa zona. Era giunto al posto di polizia coi due sul loro carro, trainato, come il levita aveva notato con disagio, da una coppia di muli: le norme ebraiche di purità vietavano dâincrociare specie diverse di bestie e anche dâavvalersi dei loro ibridi nati, ma Barnaba non aveva scelta in quella città in maggior parte pagana. I necrofori, esperti tanto di funerali gentili che ebrei, avevano caricato sul loro carro lâoccorrente per una sepoltura giudaica. Il levita aveva ordinato ai due operai di lavare il corpo di suo zio e ungerlo con gli oli; quindi, dopo aver personalmente posato il fazzoletto funebre sul capo del defunto e aver elevato una preghiera, aveva comandato dâavvolgere la salma nella sindone. Col carro i tre vivi e il morto avevano raggiunto il sepolcreto, che si trovava a un mezzo miglio da Perge: si trattava dâun canalone coperto di sassi, pruni e arbusti che passava, per la lunghezza dâun terzo di miglio e la larghezza media dâun centinaio di cubiti, fra due pareti rocciose butterate da piccole caverne a varie altezze; le tombe erano state ricavate, aggiungendo alla natura lâopera dellâuomo, sfruttando le grotte che sboccavano a livello del suolo. Dopo che il levita, in piedi accanto al carro, aveva recitato le ultime orazioni per il defunto, i necrofori avevano portato il corpo, con la sindone che lâavvolgeva, in una grotta ancora libera dove lâavevano deposto supino; quindi avevano chiuso lâantro con pietre raccolte sul luogo, a moâ di mattoni naturali, legandole fra loro con calce; avevano lasciato unâapertura, grossolanamente quadrata, a livello terra con lato di poco più dâun cubito e mezzo, dalla quale, strisciando, si sarebbe potuto accedere allâinterno; quindi avevano scavato sul terreno, accosto alla tomba, una guida lunga cinque cubiti e larga circa un palmo, lâavevano ricoperta con piccoli ciottoli piatti e vi avevano posto e ruotato, a chiusura dellâingresso, una lapide cilindrica, appena più stretta del corridoio e di diametro un poâ maggiore della diagonale dellâapertura, ruota tombale che avevano preso in bottega tra altre preventivamente lavorate e dove, su quello che sarebbe stato il lato esterno, Barnaba aveva fatto incidere, sia in aramaico sia traslitterato in alfabeto greco, il nome dello zio.
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