Guido Pagliarino - Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano

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Le Indagini Di Giovanni Marco Cittadino Romano: краткое содержание, описание и аннотация

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“Ho ritenuto bene aggiungere al mio nome quello di famiglia del mio patrono”, aveva comunicato Gionata a Maria la moglie e all’unico figlio non appena era entrato in casa, ancor prima di farsi lavare i piedi sporchi per la lordura della via; “d’ora in poi sarò Gionata Paolo; e anche al tuo nome, caro figliolo, ne seguirà uno latino, ché all’occorrenza, presentandoti ai romani, possano riconoscerti come uno dei loro e favorirti. Da questo momento sei Giovanni Marco, cittadino di Roma”.

Il giovane aveva compiuto da poco i tredici anni, era un adulto oramai, un Bar Mitzwah, Figlio della Legge ammesso a leggere e commentare in sinagoga i rotoli della Sacra scrittura. Il padre tuttavia, come s’egli fosse stato ancora un piccolo bambino, non aveva mancato di raccomandargli: “Attenzione, però: anche se adesso sei cittadino romano, non dimenticare mai d’essere un giudeo, segui sempre i 613 Mitzvot, i santi Precetti della Legge! e mai acquista qualcosa degli usi dei nostri dominatori”. Qui di colpo un sospetto gli era saltato in mente. S’era zittito e aveva guardato attorno circospetto, come se in casa o dietro al muro perimetrale potesse celarsi una qualche spia di Ponzio Pilato. Rassicurato, aveva ripreso slancio e s’era buttato appieno in uno dei suoi soliti, ridondanti insegnamenti al figlio, che spaziavano dall’etica alla storia e in cui paragonava i santi costumi farisaici a quelli biasimevoli dei gentili: “Noi ebrei, figliolo, siamo gli eletti del Cielo, mentre i romani, come i greci, per i loro corrotti costumi non risorgeranno: i nostri conquistatori videro la corrotta Grecia come culla di valori da inserire nella loro civiltà , ma insieme al sapere entrarono in Roma le abitudini morali nefande di quel popolo, che meritano punizione dal Signore!” La maledicente esclamazione non gli era di certo bastata; aveva continuato: “Invano il severo imperatore Augusto avversò quei costumi: corre voce a Cesarea Marittima che il suo erede Tiberio s’abbandoni a ogni vizio assieme alla sua corte, non differenziandosi più in nulla dagli ellenici maestri di dissolutezza. Così, presso i gentili è abominazione delle abominazioni. Che dire, d’altronde, della cultura greco-latina in sé stessa?! Poesia, filosofia, diritto sono riservati a pochi privilegiati che trattano la plebe come una cosa, per non parlare di come considerano noi giudei, noi che siamo costretti a comprarci la cittadinanza dell’Urbe per prosperare” – in fondo si sentiva in colpa per il suo recente acquisto – “e dietro agli umanisti greci e romani ecco, a perdita d’occhi, un’estensione eterogenea di miserabili popolani, a Roma come a Corinto, ad Alessandria come in Atene, ai quali, nella stragrande maggioranza dei casi, neppure viene insegnato a leggere e a fare di conto”. Si gonfiò anche di più: “Noi ebrei, invece, fino ai dodici anni! siamo istruiti in sinagoga, noi figli d’Israele tutti di stirpe regale, quella del Creatore, come sappiamo dalla sua Parola, e nient’affatto una massa come la plebe della società pagana; e chiunque di noi, come il grandissimo mio rabbì Hillel di Babilonia ch’era un semplice tagliaboschi, può continuare gli studi se un maestro l’accoglie come discepolo, e addirittura aspirare a divenire egli stesso un rabbì!”. Ripreso fiato, aveva finalmente concluso: “Che la giustizia dell’Altissimo fulmini i peccatori impenitenti per i secoli dei secoli!”.

“Amèn, amèn”, avevano fatto eco in coro figlio e moglie; e finalmente questa, ch’era rimasta per tutto il tempo con un catino in mano pronta a servire lo sposo, s’era accinta a lavargli i piedi.

Un paio di mesi dopo, il 23 di maggio, durante un soggiorno d’affari a Perge dove intendeva acquistare pregiati tappeti locali in uno degli empori cittadini per rivenderli a prezzo maggiorato a Gerusalemme, Gionata Paolo era stato trovato cadavere da una ronda di polizia, steso a terra in uno dei vicoli cittadini, trafitto al cuore.

L’assassino o gli assassini non erano stati rintracciati.

La borsa non gli era stata sottratta, difficile quindi pensare a un omicidio per rapina. Immorale concorrenza negli affari sino all’omicidio? Un banale litigio sulla via finito tragicamente? O forse era stato uno di quei fanatici patrioti ebrei detti zeloti? L’aveva punito perché era divenuto cittadino di Roma? Queste le domande che Marco s’era posto. Solo diciotto anni dopo avrebbe avuto la risposta, e il movente che avrebbe scoperto non sarebbe stato fra quelli immaginati, ma qualcosa d’assolutamente inatteso.

Capitolo III

(Indice)

Tre giorni prima della morte di Gionata Paolo, la nave proveniente da Cesarea Marittima dove il fariseo s’era imbarcato aveva gettato l’ancora nel porto di Salamina di Cipro, città dove viveva un suo nipote d’acquisto, il levita Giuseppe detto Barnaba, figlio del fratello di sua moglie e agricoltore come i defunti genitori.

Barnaba aveva ospitato lo zio per la notte e, avendo già intenzione d’acquistare a Perge, nell’immediato futuro, certe sementi pregiate, aveva deciso, lì per lì, d’unirsi a lui nel resto del viaggio.

S’erano imbarcati il giorno dopo sopra una nave più piccola di quella che aveva portato Gionata Paolo a Salamina, imbarcazione che, una volta superato il braccio di mare che divideva Cipro dalla regione di Panfilia, avendo breve immersione poteva risalire il fiume Cistro fin al piccolo ancoraggio di Perge, invece di doversi mettere alla fonda ad Attalia, il porto marino della città .

Una volta a destino, usciti dal porticciolo i due avevano visto, lungo la via che portava all’interno, donne di varie età e giovinetti imberbi, seminudi gli uni e le altre, offrirsi ai passanti tanto con la parola che toccandosi il sesso o le terga e dondolando i bacini in una pantomima sessuale. Il rigido fariseo, che sull’esperienza dei precedenti viaggi se l’era attesa, aveva eruttato, indicando il cielo con l’indice ultore della mano destra: “Obbrobrio davanti al Signore! O tu che cammini sulla sfera di cristallo del firmamento! Manda il tuo angelo di morte su tutti quest’impudichi!”.

“Amèn”, s’era unito il nipote, ma a bassa voce e senz’enfasi.

Per quel suo fiacco tono, il fariseo non era rimasto soddisfatto del parente: “Insomma Barnaba! lo vedi bene, no? cosa devo soffrire ogni volta che vengo qui. A Perge trovo il meglio dei tappeti o non ci metterei piede, sai? Lo hai notato o no, che v’imperversano addirittura gli efebi sodomiti?!”

Il nipote, socchiudendo gli occhi e piegando la bocca in una smorfia amara, aveva assentito doppiamente con la testa.

Finalmente confortato, lo zio aveva allora levato il viso il più in alto possibile e fiondato la propria voce fin alla sfera del cielo, o almeno questa ne era stata l’intenzione: “Abominazione delle abominazioni! Altissimo Signore, salva i peccatori pentiti, ma scaglia le tue maledizioni su quelli che non si pentono! Falli bruciare dal tuo angelo di morte con una tempesta di fiamme, come su Sodoma e Gomorra!”.

“Amèn”, aveva fatto eco un’altra volta il nipote, stavolta alzando di molto la voce; poi però non s’era trattenuto e, sorridendo, aveva fatto seguire: “La tempesta ardente solo quando saremo ripartiti, eh? perché se qualche lingua di fuoco andasse fuori bersaglio…”

“Beh, beh… si capisce”, aveva concordato Gionata Paolo che mancava del tutto d’umorismo.

Dividendo le spese, i due avevano affittato una stanza in un alberghetto dove il fariseo era solito soggiornare, gestito dall’ebreo Matteo Bar Beniamino, in cui, secondo le norme di purità , veniva servito cibo kosher ottimamente cucinato ai correligionari di passaggio, e pure a diversi avventori non ebrei che, pur non soggetti alle regole giudaiche, ne apprezzavano l’ottimo sapore.

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