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Federico Moccia: L'uomo che non voleva amare

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Federico Moccia L'uomo che non voleva amare

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Sofia abbassò la testa. Mosse i piedi imbarazzata. Poi continuò ad ascoltare. «Ma la cosa più importante è che ho voglia di amare e ho voglia di amare te.» Sofia continuò a restare in silenzio. «Ti aspetterò al bar sotto la chiesa, dove ci siamo conosciuti, lì dove non sei voluta venire a prendere un aperitivo la prima volta che ci siamo visti. Ti aspetterò questa sera… sarò lì dalle. Per tutta la notte invece ci sarà un aereo che ci porterà dove vuoi tu.»

Sofia fece un lungo sospiro. E lui capì che era come se gli avesse detto: “Non vuoi dirmi nient’altro?”.

Allora semplicemente aggiunse: «Ti amo».

E chiuse la telefonata.

Sofia girò su se stessa e tornò a casa.

Andrea fu sorpreso nel rivederla. «Ciao! Ma sei di ritorno così presto?»

«Sì, avevo dimenticato una cosa.» Andò in camera sua e aprì un cassetto, prese il passaporto e se lo mise in tasca.

Quando tornò in salotto Andrea era lì, felice come non mai. «Guarda…» Alzò le mani staccandole dal girello, portò il peso in avanti e fece un passo, poi un altro e infine un terzo, piegando le gambe e distendendole di nuovo. «Ce la faccio! Ce la faccio!»

All’improvviso però stava per cadere, allora afferrò il girello appena in tempo con tutte e due le mani, scivolò in avanti, ma si tenne forte e riuscì a recuperare le gambe e a ritrovare di nuovo l’equilibrio.

Sofia sorrise. «Bravo, stai facendo dei grandi miglioramenti, stai accelerando i tempi.»

«Sì, è incredibile, sono così felice, anche a fisioterapia me lo dicono…»

Solo allora si accorse che Sofia lo guardava quasi senza ascoltarlo, che il suo viso aveva una velata tristezza ma anche una nuova luce e in quell’attimo capì.

«Stai uscendo di nuovo?»

Sofia fece segno di sì con la testa, poi lo guardò, gli sorrise, si avvicinò, gli diede un bacio sulla guancia e uscì dal salotto. Avrebbe voluto chiederle: “Ma torni, vero?”.

Non fece in tempo, sentì la porta di casa chiudersi.

Lei, che di solito chiamava l’ascensore, scese giù veloce per le scale, come se avesse voluto scappar via da quella casa il più presto possibile, come se potesse ancora una volta ripensarci e magari tornare indietro. No. Non più.

Sofia uscì di corsa per strada, fece un respiro lungo, guardò in alto, verso il cielo, i suoi occhi erano pieni di lacrime ma felici, mise le mani in tasca e cominciò a camminare veloce. Doveva fare in fretta.

Tancredi era in quel bar, seduto a un tavolo.

Aveva preso il secondo cappuccino. Raschiò sul fondo quel poco di schiuma rimasta, se lo portò in bocca.

Era amaro, il sapore di quel caffè, nascosto tra quella schiuma ormai fredda.

Guardò l’orologio. Erano le.. Era in ritardo.

Una donna è quasi sempre in ritardo. In quel momento il telefono squillò. Lo prese dalla tasca della giacca e lo aprì di corsa, senza neanche guardare chi ci fosse dall’altra parte.

«Pronto?»

«Ciao…» Era suo fratello Gianfilippo. «Ti volevo di-re che ho preso una decisione importante.»

Ma era come se Tancredi non lo sentisse, era come se fosse distratto, come se non riuscisse a capire il signifi-cato di quelle parole. Non era certo quella la telefonata che stava aspettando.

«Ma hai capito cosa ti ho detto? Ti ricordi Benedetta, quella ragazza che ti ho presentato? Ecco, aspetta un bambino. Non sai come sono felice, forse perché inizia-vo a pensare che non sarebbe potuto accadere, che non mi aspettava una vita del genere, una famiglia e tutto il resto…»

Gianfilippo sentì uno strano silenzio.

«Tancredi? Ma ci sei? Mi stai ascoltando?»

Allora finalmente rispose.

«Sì. Ho sentito. E sono contento per te.»

Si scambiarono altre due chiacchiere, Gianfilippo gli raccontò che avevano deciso di sposarsi, della chiesa che avevano scelto e gli domandò perfino se voleva fargli da testimone. Ma Tancredi era lontano.

Gianfilippo se ne accorse. «Dai, ti sento distratto. Ci sentiamo presto però…»

«Sì, certo. E bello, ti sento molto felice.»

Allora chiusero la telefonata. Poi Tancredi guardò di nuovo l’orologio. Le.. È vero. Le donne sono sempre in ritardo. Ma lei non è una donna qualunque.

Allora senza chiedere il conto, lasciò dei soldi sul tavolino e fece per uscire.

Due ragazze in fondo al bancone lo guardarono, colpite dalla sua bellezza. Una delle due disse qualcosa all’altra che rise. Tancredi non ci fece caso, si tirò su il bavero del cappotto e uscì. Il vento muoveva gli alberi. Alcune foglie rosse per terra, come se si fossero messe improvvisamente d’accordo tra loro, si alzarono in un debole ballo, un breve girotondo, fecero un’in-

«certa danza prima di cadere poco più in là. Tancredi cominciò a camminare e si ricordò di un ottobre felice, intorno al fuoco con sua madre, suo fratello e sua sorella. Mangiavano le castagne calde. Quando sembravano pronte le tiravano fuori da una padella piena di buchi con una lunga pinza di ferro e le lasciavano cadere in un grande piatto. Facevano a gara per prenderle al momento giusto, quando non scottavano più, quando si potevano mangiare.

“Ahia, ma questa ancora brucia!”

La castagna cadde dalle mani di Gianfilippo e finì per terra. Claudine la prese veloce, ci soffiò sopra per pulirla e nello stesso tempo per raffreddarla. La girò tra le dita, controllandola.

“Ma non vale, quella era mia! “

Claudine levò appena in tempo la mano prima che Gianfilippo se la riprendesse.

“Mamma, non è giusto! “

“Non litigate, ce ne sono tante.”

Allora Claudine levò la buccia e diede un morso a quella castagna. Ne mangiò metà. Era buonissima, dolce e calda al punto giusto. Poi guardò Tancredi. La stava fissando. Allora gli sorrise e senza dire nulla gliela mise in bocca. Tancredi chiuse gli occhi. Sì. Era buonissima quella castagna. Fuori faceva freddo. Era una bellissima serata e davanti a quel fuoco erano felici. Ingenui e felici. Come a volte si può essere solo a quell’età.

Sofia sentì il telefonino suonare. Lo spense senza neanche guardare chi fosse. Poi staccò la batteria e lo infilò nella sua borsa. Aveva fatto appena in tempo, il treno cominciò a muoversi lentamente. Alcune persone da terra salutarono qualche passeggero. Qualcuno mandò un bacio. Il treno a poco a poco aumentò la velocità, uscì dalla stazione e cominciò a correre nella notte. Sofia chiuse gli occhi e appoggiò meglio la testa allo schienale. In poche ore sarebbe arrivata a Milano e da lì l’avrebbe raggiunta.

Quando Olja lo aveva saputo era impazzita di felicità.

«Sul serio vieni a trovarmi a Mosca?»

«Solo se ti fa piacere.»

«Ma certo! Sarai mia ospite nella casa di famiglia.

Faremo concerti in giro per tutta la Russia, da Mosca a Vladivostok, da San Pietroburgo fino all’Isola di Rat-manov e da lì andremo in America!»

Si mise a ridere. «Ma io pensavo di fare la turista, tu così mi fai lavorare e basta…»

«Hai ragione, allora quando vorrai faremo concerti, ma prima un bel periodo di vacanza. Andremo a Ki-slovodsk alle terme, prenderemo l’acqua di Narzan, l’acqua di vita, fino a quando non ti sarai riposata. Oppure andremo in una banja, anzi, in quella migliore di tutte, alla Sandunovskiye, e io te le suonerò per bene con i veniki, come dovrebbe fare una maestra con le sue alunne…»

«E cosa sono i veniki, maestra?»

«Sono dei fasci di rami di betulla.»

Avevano chiacchierato per un bel po’, avevano riso e scherzato su tante altre cose che avrebbero potuto fare insieme. Poi Sofia era andata a fare il biglietto.

Il treno ormai viaggiava a grande velocità e lei si sentiva serena come non era da molto tempo. Guardò fuori dal finestrino. Era ormai notte e c’era solo uno spic-chio di luna, alcuni campi si alternavano con qualche grande edificio. Tutto passava veloce sotto i suoi occhi.

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