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Federico Moccia: L'uomo che non voleva amare

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Federico Moccia L'uomo che non voleva amare

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“Ma dopo la morte di Claudine, non è successo nulla di strano?”

“No. Tutto come prima, è rimasto tutto esattamente uguale. “

Questo invece non era esatto. Aveva ripensato a tutto quel periodo subito dopo la morte di Claudine. Co-me poteva non averci fatto caso? In effetti qualcosa di strano era avvenuto, un piccolo cambiamento, forse in-significante, c’era stato, ma andava verificato. Uscì dalla stanza dell’ufficio e incontrò Savini.

«Che notizie hai?»

«Sono arrivati, hanno preso alloggio nella al quinto piano. In mattinata faranno le analisi e i controlli, credo che l’operazione sia per domani mattina alle nove.»

«Ok.» Tancredi passò a Savini un foglio.

«Voglio sapere tutto su questa persona il prima possibile. Conto corrente, ultimi acquisti, dove abita, cosa fa nella vita…»

Savini lesse il nome. Non gli era nuovo. Ma decise di eseguire quello che gli aveva chiesto senza chiedere spiegazioni.

«E poi fai preparare l’aereo.»

«Andiamo ad Atlanta?»

«No, quando avrai scoperto dove si trova questa persona, andremo a parlarci.»

La camera all’ospedale Shepherd Center di Atlanta era composta da tre stanze. La prima per il paziente era molto grande, aveva un televisore a muro, un armadio e una bellissima vista sul campo da golf Bobby Jones. Nel salotto accanto invece si trovavano un mobi-letto bar, un tavolo con quattro sedie, un altro televisore, un divano per gli ospiti, mentre nell’ultima il bagno.

Il servizio era impeccabile. C’erano sempre fiori.

Uno dopo l’altro alcuni medici visitarono Andrea, gli spiegarono i vari passaggi dell’operazione usando termini tecnici che lui si fece ripetere più volte per capire bene di cosa si trattasse. Poi arrivò il professore. Mishuna Torkama era un uomo di piccola statura ma, quando entrò, tutti smisero di parlare.

«Buongiorno. Lo Shepherd Center è felice di averla qui.» Poi gli sorrise con grande sicurezza e improvvisamente Andrea si sentì più tranquillo. Ascoltò la sua spiegazione. L’operazione era complicata, questo non lo si poteva nascondere, usavano le staminali, sarebbe durata un tempo che variava dalle sei alle dodici ore.

In realtà era un tempo molto indicativo, un intervento era durato quattro ore e un altro ventiquattro, ma tutti erano riusciti perfettamente. Un solo paziente era dece-duto, ma per complicazioni successive all’operazione.

«Ma gli altri interventi hanno avuto degli esiti eccel-lenti e una capacità di ripresa miracolosa» concluse Mishuna Torkama sorridendo di nuovo, la sua affermazione avrebbe dovuto fugare ogni minimo dubbio. «A più tardi.» Lo salutò e uscì dalla stanza. Altri medici porta-rono i risultati delle analisi, dell’elettrocardiogramma e di tutte le prove che Andrea aveva sostenuto nei giorni precedenti.

«Allora non ci dovrebbero essere problemi. Lei comunque deve firmare questi fogli.»

Un medico gli fece firmare il consenso informato dove erano elencate tutte le possibili complicazioni. Andrea doveva dichiarare ufficialmente di esserne al corrente.

Quando se ne fu andato anche l’ultimo professore, rimasero soli.

«Bene, mi sembra di aver consegnato la mia vita al patrimonio dell’umanità, o meglio ai tentativi di Mishuna Torkama!»

«Perché dici questo?»

«Hanno voluto togliersi qualsiasi tipo di responsabilità. Insomma era come dire: “Signori, noi ci proviamo, poi come va va, con questa cavia.”»

Sofia cercò di metterla sullo scherzo. «E dai, non dire così! Sono dei professionisti e poi non si è mai sentito di un uomo che mette il suo corpo a disposizione per la ricerca e che, invece di essere pagato, paga lui!»

«Già… E quanto paga!»

Sofia lo tranquillizzò. «Amore, il professor Mishuna Torkama sarà bravissimo e sono sicura che in questo super ospedale non c’è una persona che non sia preparata…»

Andrea pensò a quell’unico caso di morte. Si chiese se anche quel paziente avesse firmato tutti quei fogli e se anche per lui ci fosse stata la sua stessa équipe. Decise che non era il caso di farlo presente a Sofia. Aveva fatto di tutto per portarlo fin lì. Aveva scritto all’ospedale, cercato i documenti necessari, seguito ogni singolo dettaglio. E poi aveva trovato tutti quei soldi… Fece un sospiro. Aveva la speranza di una nuova vita, questa era l’unica cosa che contava, non poteva distruggere tutto con il suo cinismo.

«Hai ragione…»

Avrebbe voluto aggiungere qualcos’altro ma non fe-ce in tempo. Arrivarono due infermiere. Entrarono con un sorriso.

«Andrea Rizzi? Eccoci qui, è ora.»

Andrea non rispose nulla, sorrise anche lui ma non era certo rilassato come loro. Gli sembrava più una formula di quelle esecuzioni capitali all’americana piuttosto che la sua operazione. Le due infermiere sganciaro-no il letto dal muro e sbloccarono le ruote.

Andrea fece appena in tempo a guardare Sofia.

Lei gli strinse forte la mano.

«Ci vediamo dopo, amore. Ti aspetto qui.»

Andrea stava sudando freddo. Deglutì. Aveva la bocca asciutta, riuscì soltanto a farle un sorriso stentato. Poi il letto fu spinto fuori dalla stanza, iniziò il suo tragitto attraverso un lungo corridoio poi scomparve nell’ascensore. Andrea aveva le infermiere alle sue spalle. Non poteva vederle. Chiuse gli occhi e fece un lungo respiro, poi l’ascensore si riaprì. Erano scesi molto in basso rispetto all’edificio, alla fine di un altro lungo corridoio, dove l’aria era molto più fredda, si aprirono due grandi porte e il letto fece il suo ingresso nella sala operatoria.

Il professore Mishuna Torkama era al centro della stanza,’ aveva le braccia alzate e la sua assistente stava finendo di calzargli i guanti.

«Ecco il nostro amico…»

Subito dopo il suo ingresso, alcuni infermieri si avvi-cinarono al letto e intorno ad Andrea si chiuse un cerchio di camici blu. Gli furono attaccate alcune flebo, l’anestesista lo avvertì che mancavano pochi istanti. Poi sotto quell’ultima mascherina riconobbe i tratti del professore asiatico.

«Tra poco dormirà, scelga il posto dove vorrebbe andare. Al mare, in montagna, partecipare a una maratona. Sogni quello che vuole…»

Andrea si stava addormentando.

«Perché se tutto va bene, se noi…» il professore guardò i suoi colleghi, «se saremo bravi, il suo sogno si avvererà.»

I colleghi risero. Qualcuno disse qualcosa ancora ma Andrea non ci fece caso. Finalmente si sentì sereno.

Cercava di restare sveglio ma gli occhi gli si chiudevano.

“Una maratona. Non sarà facile. Sono un po’ fuori allenamento. Meglio una vacanza.” Li riaprì e lentamente li richiuse. “Ecco, al mare, una passeggiata su una spiaggia proprio come quelle di cui mi ha parlato Sofia.” E

con la massima fiducia in una nuova vita si addormentò del tutto.

Maria Tondelli camminava tranquilla per la sua strada. Aveva fatto la spesa a quel nuovo supermercato GS.

Era apparso da un giorno all’altro proprio lì a un chi-lometro da dove lei ormai abitava da quattro anni. Per essere un quartiere nuovo di Torino, stava acquistando importanza e valore. Gli ultimi palazzi costruiti erano stati edificati con grande stile e cura. Era arrivata anche una nuova linea di filobus, che con i suoi sedili colorati era un’ottima soluzione per andare in centro in maniera comoda e senza trovare traffico.

C’era solo un piccolo problema. Maria Tondelli non avrebbe potuto abitare in un posto come quello. Il villino dove viveva era oltre le sue possibilità o almeno di quelle che sarebbero dovute essere. Veniva dalle Marche, era l’ottava figlia di una famiglia molto umile.

Il padre era pastore e la madre faceva la sarta in un piccolo negozio. Per l’esattezza tutta la famiglia viveva in un piccolo paese vicino a Chiaravalle dove a rappresentare la vita notturna c’era solo un piccolo pub. Tutti i suoi fratelli erano rimasti in quel paese a vivacchiare, a intrecciare relazioni più o meno riuscite con qualche ragazza del posto.

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