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Federico Moccia: L'uomo che non voleva amare

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Federico Moccia L'uomo che non voleva amare

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E si sentì morire e pianse come se Claudine fosse morta per la seconda volta.

Gregorio Savini passeggiava di fronte alla Mercedes nera. Ingannava il tempo spostando con il piede ciuffi d’erba bagnata, facendo rotolare ogni tanto qualche sasso dalla strada verso il ciglio. Quando lo vide arrivare, non lo riconobbe. Il suo viso era segnato e teso.

Rabbia e dolore, odio e follia convivevano in ogni suo tratto. Savini si trovò spiazzato, non sapeva cosa dire, non lo aveva mai visto così. Allora aprì semplicemente lo sportello. Tancredi si lasciò cadere nel sedile posteriore. Accanto a lui posò una busta con qualcosa dentro. Savini salì davanti. Mise le mani al volante ma rimase fermo, in silenzio. Non aveva il coraggio di guardare nello specchietto. Poi sentì l’ultima cosa che avrebbe potuto immaginare. «Voglio ucciderlo.»

Quando arrivarono, era ormai il tramonto. Savini non fece in tempo a fermare l’auto che Tancredi scese.

Si attaccò al campanello della porta.

Una cameriera venne ad aprire, lo riconobbe. «Buonasera, signore…»

Ma non riuscì a dire altro perché lui entrò correndo, attraversò il salotto, aprì le porte una dopo l’altra, quella dello studio, della cucina, di una camera da letto, di un’altra, un bagno e infine l’ultima.

Sua madre era lì, seduta su una poltrona. Quando lo vide entrare sorrise.

«Tancredi, che bello che sei venuto…»

Stancamente si alzò, gli andò incontro, lo abbracciò.

«Ti ho cercato tanto in questi giorni ma non ti ho mai trovato. Avevo detto a Gianfilippo di avvisarti…»

Poi si staccò da lui e lo prese per mano.

«Guarda…»

Come una madre con il suo figlio più piccolo, lo con-dusse a quel letto.

Suo padre Vittorio era lì, con gli occhi chiusi. Una macchina sbuffava, un soffietto verde andava su e giù, pompando ossigeno, cercando in tutti i modi di farlo respirare, di tenerlo ancora in vita. Delle flebo partiva-no da alcune boccette appese lì intorno, perdendosi tra le sue braccia, alimentandolo.

«È entrato in coma.»

Tancredi lo guardò. Era lì, davanti a lui, inerme.

I suoi occhi chiusi, uno sguardo sereno, c’era perfino una specie di sorriso su quel volto. Era come se ridesse di lui, come se si divertisse beffardo, come se dicesse: “Vedi com’è il destino, figlio mio? La vita a volte ci prende in giro. Ora che finalmente sai tutto, non puoi fare niente, non puoi punirmi. Non solo, ma lo raccon-terai? Darai questa cattiva notizia a tua madre? A tuo fratello? Che farai? Non credo. Non dirai chi era veramente tuo padre, non li deluderai. Dovrai portare per sempre con te il peso di questa verità”.

«Hai visto poverino? E così da tre giorni.»

La madre si portò la mano alla bocca e cominciò a piangere, in silenzio. Lei, donna a volte distratta, lei che aveva spesso perdonato i tradimenti di Vittorio, ma che non sapeva certo di quale terribile delitto si fosse mac-chiato.

«Ma come mai sei qui? Ti ha cercato Gianfilippo?

Gli avevo detto di chiamarti.»

Tancredi rimase per un attimo in silenzio, guardò di nuovo il padre, il viso smagrito, le sue rughe, quelle mani immobili. Le immaginò per un attimo, allora chiuse gli occhi inorridito. Poi si girò verso sua madre, era lì, accanto a lui, senza colpe, con un’innocenza in qualche modo più fragile, mista alla sua vecchiaia, allora le sorrise.

— «Sì, mamma, l’ha fatto. Sono venuto appena ho potuto.»

Dopo aver pronunciato quelle parole Tancredi sentì tutto il peso di quella bugia. Quella donna anziana, ormai stanca, quella donna illusa, forse ancora innamorata di quell’uomo, non poteva sapere. Non doveva sapere.

Allora la madre l’abbracciò di nuovo e lo strinse a sé.

«Tuo padre è forte… Ma questa volta ho paura.»

Tancredi teneva le braccia lungo il corpo e senza volerlo si toccò la tasca della giacca. La lettera, quelle foto terribili, erano tutte lì, a un passo da sua madre. Sarebbe bastato un niente per farle vedere chi aveva avuto vicino, quale mostro aveva dormito nel suo letto, aveva approfittato di sua figlia. Dall’età di quattro anni fino a quell’ultima notte, quando Claudine, esausta, non sapendo più come affrontare il peso di quella storia, non aveva trovato altra soluzione. Si era tolta la vita.

Claudine. Claudine che non aveva conosciuto l’amore, che non era uscita con un ragazzo, che non aveva dato un bacio, che non aveva detto “ti amo”, che non aveva pianto per una storia finita o festeggiato per una appena iniziata. Claudine che aveva vissuto il sesso co-me una tortura, una punizione ricevuta da chi, più di tutti, avrebbe dovuto invece amarla.

Allora Tancredi abbracciò sua madre e cominciò a piangere. E lei quasi ne fu sorpresa. Si staccò da lui, gli asciugò le lacrime, gli accarezzò i capelli e gli sorrise cercando di consolarlo.

«Su, su, non fare così.»

Tancredi piano piano tornò a controllarsi. «Ti voglio bene, mamma. Ti chiamerò presto.»

E se ne andò, portando via con sé quell’unico dolore, il peso della verità.

«Sofia, guarda…»

Il girello procedeva lentamente. Andrea riusciva a muovere le gambe, avanzava piano, un passo dopo l’altro, tenendosi forte sulle braccia, trascinando a tratti le gambe ma riuscendo anche a piegarle.

«Hai visto? E come se fossi tornato bambino!» Sorrideva felice, il suo entusiasmo riempiva la casa, era come se ci fosse una luce nuova, si riusciva quasi a toccare l’energia di quella nuova vita.

Sofia lo guardava sorridendo. Andrea si staccò dal girello e si lasciò cadere sul divano.

«Basta, non ce la faccio più.»

«E passato appena un mese. Ce ne vorranno almeno sei per essere indipendente e riuscire a fare qualcosa di più senza appoggiarsi. Te l’hanno detto.»

— Andrea era tutto sudato. «Per me comunque è stato un miracolo. E poi quando mi è arrivata quella newsletter e ho saputo di questo professore, dei suoi studi sulle staminali applicate all’interno del midollo osseo, era la mia storia, non volevo crederci… Questa è la grandezza di una rete di comunicazione, di internet! La criticano tanto ma ci permette di essere informati in continuazione.»

Sofia gli fece una carezza su un braccio.

«Già.» Aveva le vene ingrossate per lo sforzo.

«Vuoi qualcosa da mangiare?»

«Sì, magari.»

Si alzò e andò in cucina. Poco dopo tornò con una bottiglietta di Gatorade.

«Intanto prendi questo. Ormai è come se ogni volta tu facessi una vera e propria partita di calcetto.»

Andrea sorrise. «E magari fra un anno, questo potrà accadere veramente.» Poi diede un lungo sorso.

Proprio in quel momento suonarono al citofono. Sofia si alzò e rispose.

«Sì, ti apro.»

Poi tornò in salotto. «Sta salendo Stefano.»

Andrea cercò di tirarsi su, poggiandosi sui braccioli del divano. Piano piano ci riuscì.

Sofia gli avvicinò la sedia a rotelle, la tenne ferma, così che Andrea riuscì a scivolarci sopra.

«Ecco fatto.»

Poi Sofia prese al volo un asciugamano e glielo passò sulla fronte. «Tanto suderai un bel po’ anche lì.»

Suonarono alla porta, lei andò ad aprire. «Ciao.»

Stefano era di buonumore.

«È pronto il nostro campione?»

«Certo!» Andrea scivolò sulla sedia a rotelle infilando la porta di casa, tanto che Stefano si spostò veloce.

«Mi hai quasi preso!»

«Vedrai che prima o poi ci riesco.»

Poi Stefano si rivolse a Sofia.

«Mi ha detto Lavinia se vi va di venire a cena da noi sabato…»

«Perché no, dopo magari la chiamo.» Poi chiuse la porta. Rimase nel silenzio improvviso di quella casa. Si sedette al tavolo e cominciò a pensare. La vita e i suoi mille rivoli.

Stefano si era offerto di accompagnare ogni pomeriggio Andrea a fisioterapia. Stefano il buono o Stefano che in qualche modo si sentiva in debito? Era forse merito della storia finita tra Lavinia e Fabio? Lavinia e Stefano di quel tradimento non avevano mai parlato, era come se non fosse mai esistito, avevano fatto finta di niente. La coppia %

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