Anne Rice - Scelti dalle tenebre

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Scelti dalle tenebre: краткое содержание, описание и аннотация

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Il libro racconta la storia del vampiro Lestat, da aristocratico raffinato nella Francia prerivoluzionaria allo stile rock di New Orleans degli anni ’80, scavando attraverso le sue molte differenti esistenze e indagando il mistero della sua persona unica e infinita

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Che cos’era quel suono? Rivelava l’uomo trasformato in folla… le orde che circondavano la ghigliottina, gli antichi romani che chiedevano il sangue dei cristiani. E i celti radunati nel bosco sacro in attesa di Marius divenuto dio. Vedevo il bosco come l’avevo visto quando Marius mi aveva raccontato la sua storia: le torce erano più livide di quei raggi colorati? Gli orrendi giganti di vimini erano più grandi delle scale d’acciaio che sostenevano le file degli altoparlanti e i riflettori incandescenti intorno a noi?

Ma qui non c’era violenza, non c’era morte… solo l’esuberanza infantile che scaturiva dalle bocche dei giovani e dai corpi giovani, un’energia concentrata e contenuta con la stessa naturalezza con cui si scatenava.

Un’altra zaffata di hashish dalle prime file. Motociclisti con i capelli lunghi, tutti vestiti di pelle, con bracciali di cuoio borchiato, che battevano le mani sopra la testa… sembravano fantasmi dei celti, con le chiome barbariche sulle spalle. E da tutti gli angoli di quel luogo pieno di fumo saliva un’ondata priva di inibizioni di qualche cosa che sembrava amore.

Le luci lampeggiavano e il movimento della folla appariva frammentato, come se avvenisse a scatti e sussulti.

Cantilenavano all’unisono, e il volume continuava a crescere: LESTAT, LESTAT, LESTAT.

Oh, era divino. Quale mortale poteva resistere a quella condiscendenza a quella venerazione? Strinsi i bordi del mio mantello nero. Era il segnale. Scossi i capelli. E quei gesti scatenarono una corrente di nuove urla nella sala.

Le luci puntarono sul palcoscenico. Sollevai il manto come due ali di pipistrello.

Le urla si fusero in un immane ruggito compatto.

«IO SONO IL VAMPIRO LESTAT!» gridai con tutta la forza dei miei polmoni, mentre indietreggiavo dal microfono. Il suono era quasi visibile e pareva inarcarsi sull’intera lunghezza del teatro ovale. È rumore della folla salì ancora più alto e più forte, come per divorare quel suono vibrante.

«AVANTI, VOGLIO SENTIRVI! VOI MI AMATE!» gridai all’improvviso senza riflettere. Dovunque gli spettatori pestavano i piedi, sul pavimento e sui sedili.

«QUANTI DI VOI VORREBBERO ESSERE VAMPIRI?»

Il ruggito divenne un tuono. Molti spettatori cercavano di arrampicarsi sul palcoscenico, e le guardie lì tiravano indietro. Uno dei motociclisti irsuti balzava su e giù, stringendo nelle mani due lattine di birra.

Le luci divennero più vivide, come il bagliore di un’esplosione. E dagli altoparlanti e dalle apparecchiature dietro di me salì il fragore di una locomotiva col motore al massimo, come se un treno stesse correndo sull’assito.

Ogni altro suono nell’auditorium ne fu inghiottito. La folla danzava e si dondolava davanti a me. Poi venne la furia penetrante e fremente della chitarra elettrica. La sezione ritmica rombò in una cadenza di marcia, e il suono della locomotiva prodotto dal sintetizzatore salì ancor più, eruppe in un ribollire gorgogliarne, a tempo di marcia. Era venuto il momento di incominciare a cantare. Le frasi puerili guizzavano sopra l’accompagnamento:

Io sono il vampiro Lestat
siete venuti al grande sabba
ma io vi compiango.

Presi il microfono dal sostegno e corsi verso un lato del palcoscenico e poi verso l’altro, facendo svolazzare il mantello.

Non potete resistere ai re della notte
di voi non hanno pietà
e ridono della vostra paura.

Cercavano di afferrarmi le caviglie, mi lanciavano baci, le ragazze si facevano sollevare dai compagni per toccare il mio mantello che volteggiava sopra la loro testa.

Noi vi prenderemo per amore
nell’estasi vi annienteremo
e nella morte vi abbandoneremo
nessuno può dire
che non vi abbiamo avvertiti.

Tough Cookie, strimpellando furiosamente, mi si avvicinò a passo di danza vorticosa. La musica salì in un glissando stridulo, i tamburi e i piatti scrosciarono, il ribollire del sintetizzatore ingigantì di nuovo.

Sentivo la musica penetrarmi nelle ossa. Neppure nell’antico sabba romano mi aveva travolto così.

Mi lanciai nella danza, dimenando i fianchi mentre ci avvicinavamo tutti e due verso l’orlo del palcoscenico. Stavamo eseguendo le contorsioni libere ed erotiche di Pulcinella e di Arlecchino e di tutti i personaggi della vecchia commedia… improvvisamente come avevano fatto loro, e gli strumenti si distaccavano dall’esile melodia, poi la ritrovavamo mentre ci incitavamo a vicenda con la danza senza aver provato nulla, e tutto era in carattere, tutto era assolutamente nuovo.

Le guardie spingevano indietro bruscamente gli spettatori che cercavano di raggiungerci. Ma danzavamo sull’orlo della piattaforma come per provocarli, facevamo ondeggiare i capelli intorno alle facce e ci voltavamo per vederci, in un’allucinazione insostenibile, sugli schermi giganti. Il suono saliva attraverso il mio corpo mentre mi giravo verso la folla, si spostava come una bilia d’acciaio che trova un passaggio dopo l’altro nei miei fianchi e nelle mie spalle, fino a quando mi accorsi che mi stavo sollevando dal pavimento in un grande balzo lentissimo e ridiscendendo silenziosamente, con il mantello nero ondeggiante, la bocca aperta che rivelava le zanne.

Euforia. Applausi assordanti.

E dovunque vedevo le pallide gole dei mortali denudate, ragazzi e ragazze che si aprivano i colletti e tendevano il collo. Mi invitavano a cenni di andare a prenderli, m’invitavano e m’imploravano, e alcune delle ragazze piangevano.

L’odore del sangue era denso nell’aria come fumo. Carne e carne e carne. Tuttavia, dovunque c’era l’innocente, insondabile certezza che si trattava d’artificio, niente altro che artificio. Non sarebbe successo niente a nessuno. Quella splendida isteria non era pericolosa.

Quando io urlavo, credevano che fosse l’impianto sonoro. Quando spiccavo balzi, pensavano che fosse un trucco. E perché no, quando la magia li assaliva da ogni parte e potevano dimenticare la nostra presenza concreta per i giganti luminosi sui teleschermi sopra di noi? Marius, come vorrei che tu potessi vederlo! Gabrielle, dove sei? I versi vennero cantati di nuovo all’unisono dall’intero complesso. La bella voce di soprano di Tough Cookie dominava le altre. Poi fece roteare la testa in cerchio, con i capelli che ricadevano fino a toccare l’assito davanti a lei, la chitarra che sussultava lascivamente come un fallo gigantesco, e migliaia e migliaia di spettatori battevano le mani e pestavano i piedi all’unisono.

«VI DICO CHE SONO UN VAMPIRO!» urlai all’improvviso.

Estasi, delirio.

«SONO MALVAGIO! MALVAGIO!»

«Sì. Sì, Sì, Sì, Sì, Sì.»

Alzai le braccia con le mani protese verso l’alto. «VOGLIO BERE LE VOSTRE ANIME!»

Il colossale motociclista dai capelli lanosi e dalla giacca di cuoio nero indietreggiò, fece cadere quelli che gli stavano dietro, e balzò sul palcoscenico accanto a me, con i pugni sopra la testa. Le guardie del corpo accorsero per bloccarlo; ma io l’avevo già afferrato e me lo stringevo contro il petto. Lo sollevai con un braccio, gli chiusi le labbra sul collo toccandolo appena con i denti, sfiorando quel geyser di sangue pronto a zampillare verso l’alto.

Ma le guardie lo staccarono e lo ributtarono indietro come un pesce nel mare. Tough Cookie era accanto a me, e la luce guizzava sui calzoni di raso nero, la cappa volteggiante, il braccio proteso per sostenermi mentre io cercavo di liberarmi.

Ora sapevo tutto ciò che non figurava nei libri che avevo letto sui cantanti rock… quella folle unione di primitivo e scientifico, quella frenesia religiosa. Eravamo davvero nell’antico bosco sacro. Eravamo tutti con gli dèi.

E stavamo facendo saltare le valvole con la prima canzone. Passammo alla seconda, mentre la folla prendeva il ritmo, gridava le parole imparate dagli album e dai videoclip. Tough Cookie e io cantammo, battendo i piedi a tempo:

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