Fissando il lavandino immerso nei giochi di ombre rosso-grigiastre, Bruno cercò di lottare contro il panico. In giro non aveva paura di restare al buio, perché comunque riusciva sempre a trovare un raggio di luce proveniente da qualche casa, dai lampioni stradali, dai fari delle auto, dalle stelle o dalla luna. Ma in una stanza priva di illumuiazione, i sussurri e le creature striscianti sarebbero ritornati e lui doveva assolutamente evitare quella doppia tortura.
Candele.
Sua madre teneva sempre un paio di scatole di candele nella dispensa della cucina. Le utilizzava in caso di black-out. Quasi certamente nella dispensa avrebbe trovato anche dei fiammiferi, in una scatola di latta con il coperchio a pressione. Non aveva toccato niente quando se n’era andato; si era limitato a portare via alcuni oggetti personali e artistici che aveva comperato per la sua collezione.
Si sporse in avanti per guardare la faccia dell’altro Bruno e poi disse: «Vado un attimo da basso.»
Gli occhi opachi e insanguinati continuarono a fissarlo.
«Non starò via molto,» lo rassicurò Bruno.
L’altro Bruno non rispose.
«Vado a procurarmi qualche candela per non restare completamente al buio,» spiegò Bruno. «Resterò tranquillo qui da solo, mentre io vado via per qualche minuto?»
L’altro Bruno rimase in silenzio.
Bruno si diresse nell’angolo della stanza verso le scale che lo avrebbero condotto nella camera da letto del primo piano. I gradini erano sufficientemente illuminati dalla luce proveniente dall’attico. Ma quando Bruno aprì la porta al piano di sotto, rimase sconvolto dal buio che regnava nella camera.
Le persiane.
Quando si era svegliato quella mattina, aveva aperto le persiane dell’attico, ma nel resto della casa le finestre erano tutte sigillate. Non aveva osato aprirle. Era improbabile che le spie di Hilary-Katherine notassero un paio di persiane aperte in mansarda, ma sarebbero sicuramente accorse se avesse spalancato le finestre di tutta la casa. Sembrava di essere in un sepolcro, sprofondato nella notte eterna.
Si fermò ai piedi delle scale e sbirciò nella camera buia, terrorizzato all’idea di avanzare e di sentire i sussurri.
Nessun rumore.
Nessun movimento.
Prese in considerazione l’idea di tornare nell’attico. Ma così non avrebbe risolto il suo problema. Nel giro di qualche ora sarebbe calata la sera e lui sarebbe rimasto nuovamente senza una luce in grado di proteggerlo. Doveva procedere verso la dispensa e trovare quelle candele.
Suo malgrado, avanzò nella camera del primo piano, lasciando aperta la porta delle scale da cui filtrava la pallida luce dell’attico. Due passi. Poi si fermò.
In attesa.
In ascolto.
Nessun sussurro.
Tolse la mano dalla maniglia e attraversò la camera di corsa, cercando di evitare i mobili.
Nessun sussurro.
Raggiunse un’altra porta e uscì nel corridoio del primo piano.
Nessun sussurro.
Per un breve istante, immerso nell’oscurità vellutata, non ricordò se le scale per scendere al pianterreno erano a destra o a sinistra. Poi tornò a orientarsi e svoltò a destra con le braccia allungate in avanti e le mani spalancate, in un atteggiamento simile a quello dei ciechi.
Nessun sussurro.
Per poco non cadde dalle scale. Il pavimento sprofondò all’improvviso e Bruno riuscì a salvarsi aggrappandosi alla ringhiera.
Sussurri.
Senza lasciare la ringhiera, sempre immerso nell’oscurità, trattenne il respiro e inclinò il capo.
Sussurri.
Alle spalle.
Lo stavano rincorrendo.
Lanciò un grido e vacillò giù per le scale. Perse il sostegno della ringhiera, poi l’equilibrio, si sbracciò, inciampò e atterrò su un pianerottolo urtando il viso contro il tappeto ammuffito, mentre una fìtta di dolore gli attraversava la gamba sinistra. Solo una fìtta e poi l’intontimento della carne. Sollevò la testa e udì i sussurri che si avvicinavano. Si rialzò, iniziò a piagnucolare per la paura, zoppicò giù per la seconda rampa e barcollò quando finalmente giunse al pianterreno. Si gettò un’occhiata alle spalle, fissando verso l’alto, nell’oscurità. Udì i sussurri che si stavano precipitando verso di lui con un sibilo sempre crescente e urlò: « No! No!» Poi imboccò il corridoio che l’avrebbe condotto in cucina e tutt’a un tratto i sussurri erano ovunque: risuonavano da ogni parte e c’erano anche quelle orribili cose striscianti, o quella cosa, oppure tante, non sapeva dire. Si precipitò verso la cucina, sbandando contro le pareti dei corridoi e scrollandosi di dosso le creature striscianti. Infine si avventò sulla porta della cucina, che si spalancò di colpo. Procedette a tastoni localizzando prima i fornelli, poi i mobiletti e il lavandino finché non raggiunse la dispensa, mentre le cose gli strisciavano addosso e i sussurri si facevano sempre più forti. Alla fine urlò a squarciagola, spalancò la porta della dispensa e venne assalito da un puzzo nauseabondo. Nonostante l’odore varcò la soglia, ma si rese conto che al buio non sarebbe riuscito a trovare le candele e i fiammiferi in mezzo a tutte le caraffe e i barattoli. Allora tornò di corsa in cucina, senza smettere di urlare, di picchiarsi i vestiti, di sfregarsi la faccia per liberarsi delle cose che cercavano di infilarsi nel naso e nella bocca. Trovò la porta di servizio che conduceva sulla veranda del retro, armeggiò con i catenacci induriti, riuscì ad aprirli e spalancò l’uscio.
Luce.
La luce grigiastra del pomeriggio che arrivava obliqua dalle Mayacamas inondò la soglia, illuminando la cucina.
Luce.
Per un istante, rimase fermo sulla porta, lasciandosi avvolgere da quella luce meravigliosa. Grondava di sudore. Il respiro si era fatto pesante e irregolare.
Quando infine riuscì a calmarsi, tornò nella dispensa. L’odore rivoltante proveniva dalle muffe e dai funghi che si erano formati sulle cibarie sparse ovunque, in seguito all’esplosione dei barattoli. Cercando di non impiastricciarsi, riuscì a trovare le candele e i fiammiferi. I fiammiferi erano ancora asciutti e utilizzabili. Ne accese uno per prova e quella fiammella fu un vero sollievo per la sua anima.
A ovest del Cessna, che volava a centinaia di piedi dal suolo, si avvicinavano nuvole minacciose provenienti dal Pacifico.
«Ma come?» domandò ancora una volta Joshua. «Com’è riuscita Katherine a far agire e pensare i gemelli come se fossero una persona sola?»
«Probabilmente non lo sapremo mai,» rispose Hilary. «Ma secondo me quella donna deve aver condiviso le proprie fantasie con i gemelli dal giorno in cui li ha portati a casa, quando ancora non erano in grado di capire quello che stava dicendo. Katherine avrà ripetuto loro centinaia, forse migliaia di volte che erano figli del diavolo. Avrà raccontato che erano nati ricoperti dalla membrana amniotica, spiegando il significato di quel marchio. Li avrà convinti che i loro organi sessuali erano diversi da quelli degli altri ragazzini. Probabilmente li avrà anche spaventati dicendo loro che se gli altri avessero scoperto la loro diversità, li avrebbero uccisi. Quando raggiunsero l’età in cui la curiosità avrebbe dovuto spingerli a chiedere spiegazioni, avevano ormai subito un lavaggio del cervello tale da non essere in grado di mettere in dubbio le parole della madre. Ormai condividevano la sua psicosi e le sue fantasie. I due ragazzini vivevano probabilmente in uno stato di costante tensione, timorosi di essere scoperti e quindi uccisi. La paura genera lo stress e la tensione aveva reso la loro psiche estremamente fragile. Credo che un lungo periodo di stress ininterrotto potrebbe creare l’atmosfera adatta per una fusione della personalità come quella descritta da Tony. Lo stato di tensione prolungato non può essere stato la causa unica di quella fusione, ma potrebbe aver preparato il terreno per la sua definitiva attuazione.»
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