Mio Dio! Brughel stava usando un’arma da guerra nella plancia di una nave.
Ci furono esclamazioni soddisfatte e un puzzo di bruciato si sparse nell’aria. Poi Brughel gridò: — Fuori! Fuori! Fuori!
Jau si volse a mezzo e vide che il portello era semiaperto. C’erano tre grossi fori sulla paratia e alcuni cavi stavano bruciando. Gli altri se n’erano andati, lasciandolo solo nella plancia della Mano. Trasse un lungo respiro e tornò a guardare gli schermi, per capire qualcosa. Brughel aveva ragione su un punto. C’era in gioco anche la sua pelle.
Adesso si udiva un altro rumore nell’aria. Non quello dei motori. Era come un ansito che cresceva di tono. Da prua a poppa l’astronave vibrava come una canna d’organo al contatto con lo strato superiore dell’atmosfera. La forza che teneva Jau contro la poltroncina era all’incirca 1 G standard, ma ora la sentiva angolata non tanto in senso prua-poppa quanto verso il basso. Quella era la gravità del pianeta. La Mano era una specie di aereo, adesso, un velivolo che attraversava l’atmosfera a velocità disastrosamente alta. Era a quarantamila metri di quota, ma scendeva di qualche centinaio di metri al secondo. Jau guardò l’orizzonte oscuro, punteggiato da masse di ghiaccio. Alcuni di quegli iceberg erano alti come montagne, già inchiodati al fondale di un oceano che si stava congelando. Lui batté su una tastiera e riuscì a contattare uno dei piloti; ebbe a schermo alcuni dati sparsi. Stavano per oltrepassare la costa. Nel lungo corridoio fuori dalla plancia ci furono altre detonazioni dell’arma di Brughel. Qualcuno gridò. Una pausa di silenzio e poi altre due detonazioni, più lontane.
Misure d’emergenza. Tutti i portelli si sono chiusi. E Ritser Brughel si stava aprendo la strada attraverso ognuno di essi.
Trentamila metri. Il lucore rosso del sole spento si rifletteva sul ghiaccio, ma lì non c’erano luci artificiali né città. Stavano scendendo verso il più vasto oceano di Arachna. La Mano aveva ancora una velocità sui cinquemila chilometri all’ora e le strutture esterne si surriscaldavano. Se solo lui fosse riuscito ad accendere il motore principale e rallentare a sufficienza, l’immensa mole dell’astronave avrebbe potuto proteggere la plancia, pur andando a pezzi fra gli iceberg come su una grattugia lunga decine di chilometri. Fra le storie fasulle di Pham Trinli c’era un’avventura del genere.
Una cosa era certa. Anche se lui avesse avuto il pieno controllo della nave ed effettuato quella manovra nel modo raccontato da Trinli, non ci sarebbe stato niente da fare.
Sotto di loro passò via l’ultima catena di alture dirupate. I motori ausiliari rombavano sempre, dando l’illusione di guidare la nave con una qualche loro speciale conoscenza verso un ormeggio sicuro.
Ritser Brughel aveva ancora una manciata di secondi per vendicarsi di lui, ma difficilmente li avrebbe usati per questo. Rita era salva. Jau guardò la superficie nera salire incontro alla nave, e in lui dilagò una strana sensazione di trionfo, di terrore, di libertà. — Sì, è troppo tardi per te, Ritser. Troppo tardi.
Belga Vilunder non ricordava di aver mai visto tanta paura e tanta gioia, né gente così intensamente partecipe degli stessi eventi. I tecnici di Codaven avrebbero dovuto ridere e complimentarsi mentre i loro intercettori a lungo raggio colpivano i missili balistici Kindred e centinaia di essi esplodevano o finivano fuori rotta. La percentuale di successi era già del novantanove per cento. Il che lasciava una trentina di testate atomiche ancora in volo verso il territorio dell’Alleanza. Era la differenza fra l’annientamento totale e un disastro superabile… ma i tecnici si mordevano le mani nutritive mentre lottavano per fermare anche quell’ultima minaccia.
Codaven camminava lungo le consolle dei tecnici. Lo affiancava uno dei caporali di Laigtil, un fuori-fase anche lui. Il generale si accertava che i tecnici sfruttassero al massimo ogni dato, ogni notizia che arrivava sugli schermi. Belga si teneva in disparte. Non c’era niente che lei potesse fare. Victreia Laigtil era occupata in una sua strana conversazione con gli alieni, o così aveva detto, e ogni poche frasi s’interrompeva per consultarsi con suo fratello o con Codaven. Durante una di quelle pause trovò il tempo di inviare a Belga un debole sorriso.
Belga le rispose con un cenno. La giovane aracnide era alquanto diversa da sua madre, ma non meno efficiente.
Il telefono di Victreia Laigtil suonò ancora. Lei se lo portò all’orecchio. — Sì… bene. Porteremo delle truppe sul posto. Cinque ore, forse… papà, qui siamo molto occupati. La Piattaforma Cinque sta lavorando bene. Su questo avevi ragione. Papà… mi senti? Brent, ho di nuovo perso la linea. Non è il momento migliore per questi inconvenienti… papà?
Col pilota automatico, l’elicottero di Rachner Thract volava basso e veloce attraverso l’altipiano come se temesse un attacco ostile dall’alto. I lanci antimissili erano finiti, ma sull’orizzonte meridionale il cielo era illuminato dai loro effetti. Lui stava perdendo la vista da un occhio.
Se non altro ci siamo difesi.
Poi il rumore della turbina cambiò, e poco dopo l’elicottero rallentò e prese terra in una zona pianeggiante. L’insetto-guida si agitò e premette con forza lo sportello accanto a Underhill.
— Non lo lasci uscire, signore. Se lo perdiamo di vista qui, non lo ritroviamo più.
Underhill annuì, incerto. Si tolse il suo elmetto da videogiochi e ne spense le luci palpitanti. Poi diede una pacca al suo insetto e cercò di sorridere.
— Non si preoccupi, colonnello. Ormai è tutto finito, e come può vedere, abbiamo vinto noi.
Il povero aracnide sembrava ridotto male, ma Thract cominciava a capire che quello non era il delirio di un folle. In qualche modo Underhill aveva interferito con qualcuno o qualcosa, e come risultato l’attacco dei Kindred era stato contrastato efficacemente. — Cos’è successo, signore? — domandò, scosso. — I mostri alieni avevano preso il controllo dei nostri computer… e lei ha sventato i loro complotti?
Underhill ebbe una risata secca. — Più o meno, colonnello. Il problema è che non tutti questi alieni sono mostri. Alcuni di loro agivano ai nostri danni, altri hanno voluto aiutarci… e noi, per soprammercato, avevamo i nostri piani per mandare all’inferno questo mondo. Questo è costato un prezzo terribile. — Per qualche momento tacque, con la testa scossa da un tremito. — Andrà meglio, ora. Però… io non riesco a vedere quasi niente. — Il poveretto era stato colpito alla testa dalle radiazioni e i suoi occhi erano coperti di vesciche. — Forse può dirmi lei quello che vede. — E agitò una mano verso il cielo.
Rachner si spostò più accanto al finestrino. L’orizzonte a sud era uno sfavillare di luci. — Vedo ancora decine di esplosioni ad alta quota, signore. Credo che siano i nostri intercettori.
— Ah. La povera Nizhnimor e Hrunkner… quando camminammo insieme nella Tenebra vedemmo qualcosa di simile. Allora faceva molto più freddo, e non c’era aria. — L’insetto-guida riuscì a premere la maniglia dello sportello che si aprì di una fessura, e un refolo d’aria gelida entrò nell’abitacolo.
— Signore, la consiglio di chiudere o c’è il rischio di…
— D’accordo, ma non si preoccupi. Non staremo qui a lungo. Cos’altro vede?
— Un lucore diffuso, come un effetto della ionosfera, e… — Rachner si sentì mozzare il fiato. C’era anche qualcos’altro, e lui se ne accorgeva solo adesso. — Vedo scie di vettori in rientro, signore. Una decina. Stanno passando sopra di noi, diretti a sud e a oriente. — Non poteva sbagliarsi, purtroppo. E continuavano ad apparirne altri. Migliaia di missili erano stati fermati, ma quelli che erano riusciti a passare potevano distruggere numerose città.
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