Ma andò lo stesso fuori attraverso la tana del topo, e oltrepassò il ponticello nel giardino fiorito. Evitò i becchi dei paperi e i tuffi delle api-kamikaze; aveva provato a gareggiare con loro ma era stato tutto troppo facile, inoltre se superava il tempo limite concesso contro i paperi si ritrovava trasformato in un pesce, cosa che non gli piaceva. Fare il pesce gli ricordava troppo le occasioni in cui finiva congelato, nella sala di battaglia, rigido da capo a piedi, senza altro da fare che attendere la fine dell’esercitazione perché Dap lo rimettesse in movimento. Così, come al solito, scelse di proseguire e si diresse su per le colline tondeggianti.
Cominciò il tratto paludoso. Dapprima lui era affondato interminabilmente, trascinato indietro da rigurgiti di fango sanguigno che essudava da sotto ogni roccia. Adesso però s’era fatto svelto a correre su per i tratti liberi, evitando il fango e zigzagando verso l’alto.
Come sempre, quindi, la salita terminò fra i macigni. L’altipiano si aprì libero dinnanzi a lui, ma al posto del terreno c’era una distesa di pane bianco, tenerissimo, la cui pasta s’innalzava in fragili croste che si spezzavano e cadevano. La sua figura ci sprofondava come in una spugna e dovette rallentare l’andatura. E quando saltò giù dall’enorme pezzo di pane si trovò in piedi su una tavola. Colossali fette di pane dietro di lui, colossali cubetti di burro a destra e a sinistra. E di fronte il Gigante in persona, che col mento poggiato sulle mano lo scrutava. La figura di Ender era poco più alta del suo naso.
— Credo che ti staccherò la testa con un morso — disse il Gigante, come al solito.
Questa volta, invece di correre via o di saltare dietro il burro, Ender mosse la figura verso la faccia del Gigante e lo colpì al mento con un calcio.
Il Gigante sporse la lingua, che come il rosso tentacolo d’una piovra sbatté al suolo Ender.
— Che ne dici di giocare agli indovinelli? — chiese il Gigante. Dunque quella variante iniziale non faceva alcuna differenza: l’avversario insisteva nella sua immancabile proposta. Stupido computer. Milioni di possibili gare nella sua memoria, e il Gigante vuole solo giocare a questo stupido gioco.
Come ogni volta, il Gigante piazzò due larghe coppe di vetro alte quanto il ginocchio di Ender fra loro, sul piano del tavolo. E come ogni volta esse erano colme di liquidi diversi. Il computer era abbastanza intelligente da far sì che quei liquidi non fossero mai gli stessi, per quante partite potesse giocare. Stavolta uno conteneva una spessa crema dall’aspetto semiliquido. L’altro gorgogliava e fumava.
— Uno è velenoso e l’altro no — disse il Gigante. — Indovina il drink giusto e io ti porterò nella Terra delle Meraviglie.
Indovinare significa immergere la faccia in uno dei drink e assaggiarlo. Lui non l’aveva azzeccata mai. Talvolta la sua testa si dissolveva. Talvolta prendeva fuoco. Talvolta ci cadeva dentro e affogava. Talvolta schizzava indietro, diventava verde e andava in pezzi. La fine era sempre orribile, e il Gigante rideva sempre.
Ender sapeva che qualunque fosse stata la sua scelta sarebbe morto. Il gioco era truccato. Dopo la prima morte, la sua figura sarebbe riapparsa sul tavolo del Gigante per giocare ancora. Dopo la seconda morte sarebbe stata riportata indietro sul pendio fangoso. Poi sul ponticello del giardino. Poi nella tana del topo. E poi, se fosse tornato fin dinnanzi al Gigante per giocare e perdere ancora, il suo banco si sarebbe spento. «Fine della Partita Libera», questa scritta avrebbe lampeggiato sullo schermo, e a Ender non sarebbe rimasto che abbandonarsi indietro sulla branda, tremante ed esausto, in attesa che il sonno scendesse su di lui. Il gioco era truccato, però il Gigante continuava a parlare della Terra delle Meraviglie, qualche stupidissima e infantile Fantasyland dove probabilmente c’era una stupidissima Mamma Oca, o i Tre Porcellini, o Peter Pan, o comunque nulla che valesse la fatica di posarvi gli occhi sopra. Eppure lui doveva scoprire il modo di battere il Gigante e arrivare là.
Si chinò a bere la crema liquida. Immediatamente cominciò a gonfiarsi come un pallone. Scoppiò, il Gigante rise. Era morto un’altra volta.
Giocò la seconda partita, e stavolta il liquido divenne solido come il cemento mentre lo beveva, imprigionandogli la faccia. Il Gigante lo spaccò in due lungo la spina dorsale, lo aprì come un pesce e cominciò a divorarlo, staccandogli a morsi gambe e braccia.
Riapparve sul pendio fangoso e stabilì che non avrebbe proseguito. Lasciò perfino che la poltiglia rossa lo ricoprisse, facendolo affogare. Ma quando s’accorse che stava sudando, a denti stretti per la frustrazione, usò la vita successiva per risalire le colline fin sull’altopiano di pane. Poi saltò giù dalla fetta, e in piedi attese che il Gigante piazzasse le due grandi coppe di liquido davanti a lui.
Esaminò i drink. Quello di destra fumava, l’altro era increspato di onde simili a quelle del mare. Cercò di capire che razza di morte ciascuno dei due gli avrebbe dato. Magari da quel mare schizzerà fuori un pesce che mi mangerà. E quello che fuma probabilmente mi farà soffocare. Odio questo gioco. Non sa di niente. È stupido. È truccato.
E invece di chinarsi a bere rovesciò con un calcio la coppa di sinistra, quindi l’altra, saltando qua e là per evitare le mani inferocite del Gigante che gridava: — Imbroglione! Imbroglione! — Balzò su quell’enorme faccia, arrampicandosi sulle labbra e sul naso, e affondò un pugno nell’occhio destro dell’avversario. La cornea bianca schizzò attorno come ricotta fresca, e mentre il Gigante urlava la figura di Ender gli si aggrappò alla palpebra, scavando nel molle materiale con colpi ampi e violenti.
Il Gigante si rovesciò all’indietro e cadde. La visuale dello schermo tremò all’immenso urto, e quando il corpo del colosso giacque immobile sul terreno tutto attorno sorgevano alberi fitti ed intricati. Un pipistrello svolazzò avanti e atterrò sul naso del Gigante. Ender fece emergere la sua figura dall’occhio ridotto in poltiglia.
— Come sei riuscito ad arrivare qui? — chiese il pipistrello. — Nessuno viene mai da queste parti.
Ender era troppo sorpreso per rispondere. Si chinò, raccolse una manciata della sostanza di cui era fatto l’occhio del Gigante e la offrì al volatile.
Il pipistrello la ingoiò d’un colpo, quindi si alzò in volo. — Benvenuto nella Terra delle Meraviglie! — gridò, mentre si allontanava.
Ce l’aveva fatta. Ora poteva esplorare. Ora poteva saltar giù dalla faccia del Gigante e guardare ciò che aveva finalmente ottenuto.
Invece spense lo schermo, spinse il banco nell’armadietto, si tolse la tuta da fatica e lentamente s’infilò sotto le coperte. Non aveva avuto intenzione di uccidere il Gigante. Quello avrebbe dovuto essere soltanto un gioco, non una scelta fra il morire in modo ripugnante e il commettere un omicidio ancor meno piacevole. Sono un assassino, perfino quando gioco. Peter sarebbe fiero di me.
CAPITOLO SETTIMO
SALAMANDRA
— Non è simpatico sapere che Ender riesce a fare l’impossibile?
— La morte di un giocatore ha deleteri effetti cumulativi sulla sua mente. Ho sempre pensato che il Drink del Gigante fosse il gioco più pericoloso da questo punto di vista. Ma accanirsi sul suo occhio a quel modo… è questo il nostro miglior candidato al comando della Flotta?
— Non vedo cosa ci sia di male nell’aver vinto a un gioco truccato.
— Suppongo che adesso lei lo trasferirà.
— Stavamo aspettando di vedere cos’avrebbe fatto con Bernard. Se l’è cavata perfettamente.
— Così, appena riesce a risolvere una situazione lei lo mette di fronte a un’altra che non sa come affrontare. Non gli lascerà un po’ di riposo?
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