SO CHE SEI STATO TU.
— BERNARD
Ender non rialzò lo sguardo, e si comportò come se non avesse ricevuto alcun messaggio. Bernard sta solo cercando di scoprire se ho la faccia del colpevole. Ma non lo sa.
Naturalmente non importava nulla che sapesse o meno. Bernard avrebbe cercato di fargliela pagare, per il solo fatto che non poteva permettersi di perdere la faccia. L’unca cosa che non riusciva a sopportare era che gli altri ridessero di lui. Doveva far capire a tutti chi era il capo. Fu così che quel mattino Ender finì faccia a terra nel locale delle doccie. Uno dei compagni di Bernard attese che l’inserviente si voltasse e gli piantò un ginocchio nell’addome. Ender mandò giù il rospo in silenzio. Stava ancora osservando e aspettando, e non intendeva mostrare agli insegnanti che fra lui e l’altro c’era guerra aperta.
Ma nell’altra guerra, quella che si svolgeva sui banchi, aveva già messo in opera l’attacco successivo. Quando tornò dalle docce trovò Bernard in preda alla rabbia; stava prendendo a calci le cuccette e gridava ai compagni: — Non sono stato io a scriverlo! State zitti!
Sul banco di ogni ragazzo era in marcia un messaggio luminoso:
AMO I VOSTRI BEI CULETTI. LASCIATEMELI BACIARE.
— BERNARD
— Ho detto che non sono stato io a scriverlo! — strillò Bernard. Dopo qualche minuto quelle urla fecero apparire Dap sulla soglia della camerata.
— Cos’è questo baccano? — li apostrofò.
— Qualcuno che usa il mio nome sta mandando attorno delle scritte! — brontolò imbronciato Bernard.
— Quali scritte?
— Non importa quali!
— A me importa. — Dap si accostò al banco del ragazzo che aveva la cuccetta accanto a quella di Ender. Lesse il messaggio, la sua bocca parve curvarsi in un mezzo sorriso, poi spinse il banco nell’armadietto.
— Interessante — disse.
— Adesso indagherà per scoprire il colpevole? — volle sapere Bernard.
— Oh, lo conosco già — rispose Dap.
Sì , rifletté Ender. È stato troppo facile inserirmi nel programma. Loro sanno che si può far questo col computer, forse anzi ci contano. E sanno che l’intrusione è venuta dal mio banco.
— Be’, allora chi è? — sbottò Bernard.
— Stai gridando con me, recluta? — chiese dolcemente Dap.
All’istante l’atmosfera della camera cambiò. Se gli amici di Bernard avevano fatto commenti rabbiosi, e da parte degli altri c’erano state risatine ironiche, tutti tacquero. L’autorità stava facendo sentire la sua voce.
— Nossignore — disse Bernard.
— Tutti sanno che il programma inserisce automaticamente il nome del mittente.
— Io non ho scritto quella roba! — replicò Bernard.
— Allora perché ti agiti tanto, marmocchio? — disse Dap.
— Ieri qualcuno ha mandato in giro un messagio firmato DIO — aggiunse Bernard acremente.
— Sul serio? — chiese Dap. — Guarda, guarda. Non sapevo che Dio fosse inserito nei programmi. — Gli volse le spalle e uscì, e la camerata fu piena di risa divertite.
Il tentativo di Bernard d’eleggersi a piccolo duce del loro gruppo si sfasciò così nel ridicolo: soltanto pochi gli rimasero fedeli. Ma erano i più pervicaci. E Ender seppe che finché si fosse limitato a osservare e attendere per lui sarebbe stata dura. Tuttavia quel giochetto col computer aveva ottenuto un risultato. Bernard era stato rimesso a posto, e tutti i ragazzi che avevano qualche buona qualità erano liberi dalla sua influenza. Ma soprattutto, Ender c’era arrivato senza mandarlo un’altra volta in mano al medico. Molto meglio a questo modo , pensò.
Poi si dedicò al difficile compito d’inserire un migliore sistema di sicurezza nel suo banco, visto che quelli previsti dal normale programma erano evidentemente inadeguati. Se un ragazzino di sei anni poteva farvi breccia, era chiaro che li avevano predisposti per eseguire una routine senza garanzie di riservatezza. Soltanto un altro gioco che gli insegnanti hanno studiato per noi. Ed è un gioco a cui sono bravo.
— Come ci sei riuscito? — gli chiese Shen, a colazione.
Ender prese nota con calma che per la prima volta un ragazzino della sua classe veniva a sedersi a tavola accanto a lui. — Riuscito a far cosa? — domandò.
— A mandare un messaggio con un nome falso. E poi con quello di Bernard! È stata grande. Adesso lo soprannominano Il Guardaculi. Davanti all’insegnante lo chiamano solo Il Guarda, ma tutti sanno che cosa guarda.
— Povero Bernard — mormorò Ender. — Pensare che è così sensibile.
— Avanti, Ender. Tu ti sei inserito nel programma. Come hai fatto?
Ender scosse il capo e sorrise. — Grazie per aver pensato che io sia tanto abile da riuscirci. L’ho soltanto visto per primo, questo è tutto.
— D’accordo, non sei costretto a dirmelo — annuì Shen. — Comunque è stata grande. — Per un poco mangiò in silenzio. — Sul serio faccio ondeggiare il sedere quando cammino?
— Ma no — disse Ender. — Appena un poco. Solo, bada a non fare quei passi così lunghi, e sarai a posto.
Shen annuì.
— L’unico che l’abbia notato è stato Bernard.
— È un maiale — disse Shen.
Ender scosse le spalle. — Evita i maiali e non ne sentirai il puzzo.
Shen rise. — Hai ragione. Io pure li individuo a naso.
Risero entrambi, guardandosi, e altri due ragazzini del loro gruppo vennero a sedersi accanto ad essi. L’isolamento di Ender era finito. La guerra era soltanto nella sua fase iniziale.
CAPITOLO SESTO
IL GIGANTE
— In passato abbiamo avuto fin troppe delusioni. Ce li alleviamo per anni, li facciamo ballare sul filo del rasoio sperando ansiosamente che se la cavino, e poi loro non ce la fanno. Ma con Ender sarà tutto più semplice: sembra deciso a finire congelato entro i prossimi sei mesi.
— Ah!
— Non vede quello che sta succedendo? Si è fissato su uno dei test mentali, il Drink del Gigante. Il ragazzo ha per caso tendenze suicide? Lei non ne ha mai parlato.
— Tutti si cimentano col Gigante, una volta o l’altra.
— Ma Ender rifiuta di cedere. Come Pinual.
— Tutti reagiscono un po’ come Pinual, prima o poi. Ma lui resta il solo che si è suicidato. E non credo che la cosa fosse collegata al Drink del Gigante.
— Lei ci sta scommettendo la mia carriera. E guardi cos’ha combinato col suo gruppo.
— Sa bene che non è stata colpa sua.
— Non m’importa, Colpa sua o meno, sta avvelenando quel gruppo. Si presume che i membri di un gruppo debbano sentirsi uniti, ma dove entra lui si aprono abissi larghi un miglio.
— Non progetto di lasciarlo lì a lungo, comunque.
— Allora, meglio che riveda i suoi progetti. Quel gruppo si è ammalato, e lui ne è stato il virus. Ma non è allontanandolo che potremo curare gli altri. Al contrario, deve restare.
— Sono stato io a causare questa malattia. L’ho isolato dagli altri, e l’effetto non è mancato.
— Gli dia tempo. Vediamo se riesce a sbrogliare la situazione.
— Di tempo non ne abbiamo.
— Dobbiamo averlo, visto che si tratta di capire se abbiamo per le mani uno che ha le stesse probabilità di diventare un genio militare oppure un mostro.
— Questo è un ordine?
— Stiamo registrando. Si registra tutto, qui. Il suo collo è ben protetto. E adesso vada all’inferno.
— Se si tratta di un ordine, io…
— È un ordine. Lo lasci dov’è, e stiamo a vedere come se la cava col suo gruppo. Graff, lei mi farà venire l’ulcera.
— Non rischierebbe l’ulcera se lasciasse la Scuola a me, e andasse a occuparsi della Flotta lei personalmente.
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