Non fino a quella notte, dopo che le luci furono abbassate, quando di lontano udì i singhiozzi soffocati di qualche ragazzino che piangeva per sua madre, o suo padre, o per il cane che non avrebbe visto più. Le labbra di lui formarono il nome di Valentine. Gli parve di sentire la sua voce ridere da qualche parte, giù in soggiorno. Vide Mamma passare davanti alla sua porta, fermandosi a sbirciare dentro per esser certa che tutto andasse bene. Sentì la voce di Papà commentare qualcosa, davanti alla TV. Era tutto ancora così nitido in lui, eppure non sarebbe mai più accaduto. La prossima volta che li rivedrò sarò diventato vecchio, dodici anni a dir poco. Perché ho detto di sì? Cosa mi ha fatto fare questa sciocchezza? Andare a scuola sarebbe stato niente in confronto. E anche dover affrontare Stilson. E Peter. Erano due cacasotto, Ender non aveva più paura di loro.
Voglio andare a casa , sussurrò nel buio.
Ma il suo sussurro era quello che gli usciva di bocca quando Peter lo costringeva a gemere di dolore. Era un sussurro che non andava più lontano dei suoi stessi orecchi, e talvolta non giungeva neppure a quelli.
E le indesiderate lacrime poterono scivolare sulle sue guance, accompagnate da singhiozzi così lievi che non destavano un fremito nelle molle del letto, così silenziosi che nessuno li avrebbe uditi. Ma il dolore era lì, chiuso nella sua gola e rigido nella smorfia del viso, caldo nel suo petto e liquido sotto le palpebre tremanti. Voglio tornare a casa!
Quella notte Dap entrò nella camerata e si mosse lento fra le cuccette, toccando una fronte qua, una mano là. Al suo passaggio i pianti divenivano più intensi, invece di smorzarsi. Quel tocco di gentilezza in un posto così freddo e sconosciuto bastava a spingere i ragazzini oltre l’orlo delle lacrime. Non Ender, però. Quando Dap gli fu accanto i suoi singhiozzi erano spenti, il suo volto asciutto. Era il volto bugiardo che lasciava vedere a Mamma e a Papà, quando non osava far loro capire che Peter era stato crudele con lui. Grazie per questo, Peter. Per gli occhi asciutti e i singhiozzi silenziosi. Tu mi hai insegnato come nascondere ciò che sento. E adesso ho bisogno di questo più che mai.
C’era sempre una scuola. Ogni giorno ore ed ore da trascorrere in classe. Letture. Numeri. Storia. Filmati di battaglie sanguinose avvenute nello spazio, coi marines che spargevano le loro budella sulle paratie delle navi degli Scorpioni. Olografie di nitide manovre belliche della Flotta, e astronavi che si trasformavano in sbuffi di luce mentre gli equipaggi uccidevano e venivano uccisi nella profonda notte cosmica. Molte cose da imparare. Ender lavorò duro come ogni altro, e tutti loro dovettero per la prima volta nella vita impegnarsi al massimo, perché per la prima volta erano in competizione con compagni di classe intelligenti almeno quanto loro.
Ma i giochi… era questo ciò per cui vivevano. Ciò che riempiva le loro ore fra il mattino e la sera della stazione spaziale.
Dap li condusse nella sala dei giochi fin dal secondo giorno. Era in uno dei ponti superiori, piuttosto in alto rispetto al livello in cui i ragazzini vivevano e lavoravano. Si arrampicarono lungo scale dove la gravità diminuiva gradatamente, e in una grande caverna metallica videro lampeggiare le policrome luci dei giochi.
Alcuni erano giochi che avevano già fatto a casa loro, altri erano sconosciuti. C’erano quelli facili e quelli difficili. Ender oltrepassò la fila dei giochi sugli schermi bidimensionali e cominciò a osservare quelli dei ragazzi più grandi, i giochi olografici con gli oggetti che si spostavano nell’aria. Ben presto fu il solo del suo gruppo ad aggirarsi in quella zona della sala, e ogni tanto inciampava in uno dei giocatori, che trovandoselo troppo vicino non esitava a spingerlo via. Tu che stai facendo qui? Sparisci, pivello. Vola via. E naturalmente le spinte lo facevano volare, lì in quella gravità così bassa. I suoi piedi si staccavano dal suolo e lui roteava altrove, finché non andava a sbattere in qualcosa o in qualcuno.
Ogni volta, tuttavia, si districava dall’ostacolo e tornava indietro, non sempre nello stesso posto esatto, per studiare il gioco da un’angolazione diversa. Era troppo piccolo per arrivare a veder bene i pannelli di controllo, da cui le partite erano regolate. Questo non gli era d’ostacolo. Ne esaminava i risultati nel campo visivo tridimensionale. Studiava la tecnica con cui il giocatore scavava tunnel nella tenebra, tunnel di luce, a caccia dei quali le navi nemiche si sarebbero gettate per poi seguirli spietatamente fino a trovare quella del giocatore. Il vascello cacciato poteva lasciare trappole dietro di sé, mine, missili automatici, falsi percorsi che costringevano la nave inseguitrice a girare in tondo interminabilmente. Alcuni giocatori erano molto abili. Altri perdevano la gara fin dall’inizio.
Quello che però appassionava Ender erano le partite in cui due ragazzi si battevano fra loro, non contro la macchina. In tal caso ognuno poteva usare i tunnel dell’altro, e presto diveniva chiaro chi dei due stava usando la strategia più efficace.
Quel gioco in particolare cominciò a sembrargli insipido dopo appena un paio d’ore, tanto gli era bastato per capirne le regole. O meglio, capì le regole secondo cui funzionava il computer, e quindi fu certo che una volta appreso l’uso dei comandi sarebbe riuscito a sventare fatalmente le manovre dell’avversario. Spirali quando la nave nemica avanzava in un certo modo, circoli chiusi quando si spostava in un altro. Fingere di cadere in alcune delle trappole, farle scattare a vuoto giocando sugli impulsi di vicinanza per le prime sei, trasformare la settima in una falsa trappola con un espediente tecnico. Non si trattava di una sfida vera e propria, era soltanto questione di giocare finché il computer diventava così veloce da superare i riflessi umani. Ma col computer non era divertente. A lui interessava competere con un avversario umano. Con quei ragazzi talmente addestrati a battersi contro la macchina che anche durante le sfide reciproche tentavano di emulare il computer. E che pensavano come una macchina invece che come un ragazzo.
Potrei batterli con questo sistema. Potrei batterli con quest’altro.
— Mi piacerebbe fare una partita con te — disse al giocatore che aveva appena vinto.
— Santo cielo, e questo cos’è? — esclamò il ragazzo. — Una piattola che parla con voce umana?
— Hanno appena tirato a bordo un’infornata di lattonzoli — gli rispose un altro.
— Ma questo parla. Chi gli ha tolto il ciucciotto dalla bocca?
— Ho capito — annuì Ender. — Hai paura di giocare con me. Due partite su tre, se te la senti.
— Stracciarti sarebbe più facile che pisciare nel lavandino, bimbo.
— E divertente neanche la metà — aggiunse l’altro ragazzo.
— Io sono Ender Wiggin.
— Apri l’audio, piattola. Tu sei nessuno. Ricevuto? Tu sei esattamente un nessuno, sintonizzati su questo. E resterai un nessuno finché non avrai ammazzato il tuo primo qualcuno. Chiudi pure l’audio e fila.
Il gergo dei ragazzi più grandi aveva un suo ritmo. Ender non mancò di apprezzarlo. — Se io sono nessuno, come va che tu hai paura di giocare a due su tre con me?
Adesso gli altri stavano emettendo grugniti d’impazienza. — Regalati dieci secondi per far fuori questa piattola, e leviamocela dai piedi.
Fu così che Ender prese posto ai comandi, a lui del tutto sconosciuti. Le sue mani erano piccole, ma leve e tasti avevano uno schema abbastanza semplice. Gli bastò sperimentare i pulsanti per accertarsi di quali armi comandavano. I controlli dei movimenti erano riuniti in una leva di tipo standard. Dapprima i suoi riflessi furono lenti e incerti. L’altro ragazzo, che non gli aveva ancora detto il suo nome, procedette invece con inflessibile rapidità. Ma Ender apprese ciò che non sapeva, e prima che la partita fosse terminata stava andando molto meglio.
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