Orson Card - Il gioco di Ender

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Il gioco di Ender: краткое содержание, описание и аннотация

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Gli alieni, minacciosi esseri dall’aspetto insettoide, hanno attaccato due volte la Terra e questa guerra il governo del mondo ha deciso di creare una razza di genii militari, di allevare bambini al di fuori del mondo normale e istruirli nelle arti marziali tramite una serie di “giochi di guerra” e di combattimenti simulati basati sull’uso del computer.
Ender Wiggin, l’eroe di questo magnifico romanzo, è un genio tra i genii: nato con le doti di un superbo comandante e condottiero di uomini, viene forzato a una precoce maturità attraverso un addestramento continuo e pressante. Toccherà a lui, unico a vincere tutti i “giochi”, assumere il comando, al momento opportuno, delle forze terrestri effettive: sarà lui a guidare le astronavi umane e i computer che dirigono la gittata dei missili contro il nemico. Con questo Il gioco di Ender, Orson Scott Card, uno dei migliori autori della fantascienza moderna, è riuscito a rinnovare uno dei temi più classici di questo genere letterario, quello dell’addestramento dei cadetti spaziali, e si è imposto, vincendo tutti i maggiori premi del 1986, a fianco dei Dickson e degli Heinlein e di tutti i grandi maestri di questo filone narrativo.

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Il corpo del Gigante era pressoché ai limiti della decomposizione. Ciò che poteva esser mangiato via dagli animali necrofori era consumato; i vermi avevano compiuto il loro lavoro negli organi interni; adesso non restava che una mummia disseccata dalle orbite vuote, coi denti scoperti in un sogghigno scheletrico e le dita come artigli ricurvi. Ender ripensò alla ferocia con cui gli aveva aggredito l’occhio quando era vivo, malizioso e intelligente. Irritato e frustrato come si sentiva, desiderò poterlo di nuovo attaccare e uccidere. Ma ormai il Gigante era divenuto parte di quel panorama, e odiarlo non aveva più alcun senso.

Ender era già stato oltre il ponte al castello della Regina di Cuori, dove c’erano da giocare partite abbastanza divertenti, ma in quel momento nessuna di esse lo attirava. Aggirò il cadavere del Gigante e seguì il ruscello controcorrente, fino al punto in cui emergeva dalla foresta. Là c’era un tipico parco giochi, con i toboga e le altalene, la pista di pattinaggio e alcune giostre, e dozzine di bambini stavano cicalando e ridendo. Ender si avvicinò e s’accorse che la sua figura aveva perso certe caratteristiche adulte trasformandosi in quella di un bambino. Anzi era ancor più piccola e giovane degli altri ragazzetti.

Si mise in fila per il toboga. Gli altri bambini lo ignorarono. Salì la scaletta fino in cima e attese che quello davanti a lui si fosse gettato giù lungo la liscia spirale che terminava al suolo. Poi sedette e si spinse in avanti.

Non stava scivolando neppure da un istante quando si trovò ad atterrare nella sabbia sotto l’incastellatura. Il toboga non lo voleva su di sé.

Anche le altalene rifiutavano la sua presenza. Poteva sedersi e cominciare a muoversi, ma appena l’oscillazione aumentava il sedile diventava incorporeo e lui cadeva. Il ponticello sullo stagno lo lasciò precipitare in acqua mentre attraversava. Provò una delle giostre, che partì normalmente; quando però essa cominciò a girare forte e Ender cercò di aggrapparsi le maniglie si smaterializzarono e la forza centrifuga lo scaraventò al suolo.

E gli altri bambini: le loro risate erano rauche, offensive. Fecero circolo intorno a lui, gli rivolsero gesti derisori e prima di tornare ai loro giochi lo insultarono beffardamente.

Ender provò l’impulso di colpirli, di afferrarli e gettarli nel ruscello. Invece si inoltrò nella foresta. Trovò un sentiero, che poco dopo si allargò in un’antica strada lastricata in pietra, aggredita dalle erbacce ma ancora praticabile. Su ambo i lati c’erano possibili buone partite da giocare, ma Ender non s’impegnò in alcuna di esse. Voleva vedere dove portava la strada.

Ciò che si trovò davanti fu una radura con un vecchio pozzo al centro, e su di esso un cartello che diceva: «Dissetati, viandante». Ender andò a guardare nel pozzo. In quell’istante udì un ringhio. Dalla foresta erano sbucati una dozzina di lupi avidi di sangue, ed avevano volti umani. Ender li riconobbe: erano i bambini che l’avevano deriso. Ma adesso avevano zanne fatte per sbranare, e senza un’arma con cui opporsi Ender fu subito sopraffatto e divorato.

La sua figura successiva apparve, come di regola, nello stesso luogo, e fu di nuovo fatta a pezzi dai lupi, benché Ender avesse tentato di gettarsi nel pozzo.

Nella partita che seguì venne riportato indietro nel parco giochi. I bambini stavano ridendo intorno a lui. Ridete pure finché volete , pensò Ender. Ora so chi siete. Agguantò una di loro. Lei lo seguì, irosamente, fino al toboga e si lasciò spingere in cima alla scaletta. Poi Ender si gettò giù con lei. Come in precedenza si ritrovò di colpo al suolo, ma anche la bambina era precipitata insieme a lui e al momento dell’impatto s’era trasformata in un lupo, che adesso giaceva stordito o morto sulla sabbia.

Uno dopo l’altro Ender trascinò i piccoli licantropi in quella trappola. Ma prima che avesse finito di eliminare l’ultimo i lupi ripresero vita, e non si mutarono in bambini. Ender fu sbranato nuovamente.

Questa volta, scosso e sudato, ritrovò la sua figura in piedi sul tavolo del Gigante. Potrei anche averne abbastanza , si disse. E dovrei presentarmi al comandante dell’orda.

Ma invece fece scendere la figura sulla sedia e al suolo, aggirò il corpo del Gigante e si diresse al parco giochi.

Stavolta, non appena i bambini si mutarono in lupi sotto il toboga, Ender li trascinò via e li gettò nel ruscello. A ogni tuffo i corpi sfrigolavano come se l’acqua fosse acido. I lupi furono distrutti, e una grossa nuvola di fumo scuro fluttuò via dalla zona. Nello stesso modo dovette disfarsi di altri bambini, che avevano preso a inseguirlo verso l’antica strada. Nella radura non trovò lupi in agguato, cosicché entrò nel secchio del pozzo e usando la carrucola si calò fino in fondo.

Nella caverna aleggiava una penombra rosata nella quale sfavillavano mucchi di gioielli. Passò oltre, e notò che alle sue spalle degli occhi balenavano fra le gemme. Una tavola coperta di cibarie non destò il suo interesse. S’inoltrò fra numerose gabbie, appese al soffitto della grotta, ognuna contenente creature strane dall’aria abbastanza amichevole. Giocherò con voi più tardi , pensò Ender. Sul fondo si trovò davanti a una porta che recava inciso, in lettere verdi e scintillanti:

LA FINE DEL MONDO

Senza pensarci sopra spinse il battente e passò oltre.

Dovette fermarsi subito. Si trovava su uno stretto cornicione roccioso, alto sulla parete di un burrone, di fronte a un immenso panorama di boschi su cui stagnavano i colori dell’autunno, qua e là chiazzato dall’ocra scuro dei campi ormai mietuti. C’erano stradicciole, carri trainati da buoi, piccoli villaggi sonnolenti, e un castello che in distanza si stagliava contro il cielo, così alto che le nuvole s’infrangevano nei picchi rocciosi alla base delle sue mura. Alzò gli occhi e vide che il cielo era il soffitto di un’immensa caverna, dove nidi di cristalli luccicavano fra le stalattiti.

Dietro di lui la porta si chiuse. Ender studiò quello scenario con meraviglia. Era così bello che la sua perenne attenzione contro il pericolo si rilassò. Al momento gli importava poco di quali partite si potessero giocare in quel posto. L’aveva scoperto lui, e contemplarlo era il suo premio. Così, senza nessun timore per le conseguenze, saltò giù dal cornicione.

La mossa lo mandò a precipitare in picchiata verso le rapide spumeggianti di un torrente, fra cui si levavano rocce acuminate, ma una nuvola avanzò a interporsi fra lui e il disastro, lo raccolse e lo portò via. Quel singolare tappeto volante lo condusse fino alla terre del castello, e quindi direttamente dentro una delle finestre che vi si aprivano. Fu deposto al suolo in una stanza di pietra, priva di porte e senza botole sul soffitto o sul pavimento. L’unica uscita era la finestra, che offriva soltanto una mortale caduta da grande altezza.

Pochi momenti prima s’era tuffato in un burrone con cieca incoscienza, ma stavolta esitò.

Quello che era parso un pezzo di legno davanti al caminetto si svolse dalle spire, rivelandosi per un lungo serpente i cui denti scintillavano di veleno.

— L’unica uscita dalla stanza sono io — disse. — La morte è la tua sola via di fuga.

Ender si stava guardando attorno in cerca di un’arma, quando all’improvviso lo schermo diventò nero. Su di esso lampeggiò una scritta:

SUBITO A RAPPORTO DAL COMANDANTE
SEI IN RITARDO
VERDE VERDE MARRONE

Seccato, Ender spense la scrivania, andò agli indicatori colorati accanto alla porta e premette la striscia verde verde marrone, poi seguì il sentiero che s’era acceso davanti a lui. Il verde chiaro, il verde smeraldo e il marrone terroso del nastro gli ricordarono l’autunno del regno che aveva appena scoperto. Devo ritornarci , disse a se stesso. Quel lungo serpente è come una corda, posso usarlo per calarmi dalla torre e trovare la soluzione di quel posto. Forse si chiama la fine del mondo perché è la fine della partita, perché io potrei entrare in uno di quei villaggi e diventare uno dei ragazzini che lavorano e giocano laggiù, senza nulla che mi possa uccidere e senza nulla da uccidere, soltanto per vivere là.

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