— No — disse il ragazzo.
— Invernomuto?
— No. Avevo visto arrivare la sua morte. Nelle ricorrenze che talvolta tu immaginavi di riuscire a individuare nella danza della strada. Quei corsi e ricorsi sono veri. Io sono abbastanza complesso, pur nei miei limiti, per leggere quelle danze. Assai meglio di quanto possa fare Invernomuto. Ho visto la sua morte nel bisogno stesso che aveva di te, nel codice magnetico della serratura sulla porta della tua bara al Cheap Hotel, nel conto di Julie Deane presso un fabbricante di camicie di Hong Kong. Chiaro per me come l’ombra di un tumore per un chirurgo che studi la lastra di un paziente. Quando portò il tuo Hitachi dal suo ragazzo, per cercare di accedervi (lei non aveva la minima idea di cosa aveva in mano, e ancora meno di come avrebbe potuto venderla, e il suo più profondo desiderio era che tu la inseguissi e la punissi), allora sono intervenuto. I miei metodi sono decisamente più subdoli di quelli di Invernomuto. L’ho portata qui. Dentro me stesso.
— Perché?
— Speravo di riuscire a portar qui anche te, di tenerti qui. Ma ho fallito.
— E adesso che cosa succede? — Li riportò indietro con una virata in mezzo al banco di nubi. — Dove andiamo adesso?
— Non lo so, Case. Stanotte persino la matrice si pone la medesima domanda. Perché tu hai vinto, hai già vinto, non lo vedi? Hai vinto quando ti sei allontanato da lei sulla spiaggia. Lei era la mia ultima linea di difesa. Io morirò molto presto, in un certo senso. Come accadrà a Invernomuto. Sicuramente come sta accadendo a Riviera, ora, mentre giace paralizzato accanto ai resti di una parete negli appartamenti della mia Lady 3Jane Marie-France, con il suo sistema di nigra striata incapace di produrre i ricettori di dopamina che potrebbero salvarlo dalla freccia di Hideo. Ma Riviera sopravviverà soltanto sotto forma di questi occhi, se mi sarà permesso conservarli.
— C’è la parola , giusto? Il codice. Allora, com’è che avrei vinto ? Ho vinto un accidenti!
— Cambia, adesso.
— Dov’è Dixie? Cos’hai fatto con il Flatline?
— McCoy Pauley ha il suo desiderio — disse il ragazzo, e sorrise. — Il suo desiderio e qualcosa di più. Ti ha digitato qui contro il mio volere, e si è lanciato attraverso difese uguali in tutta la matrice. Su, cambia.
E Case si trovò solo nel pungiglione nero del Kuang, smarrito fra le nuvole.
Cambiò.
Nella tensione di Molly, la sua schiena simile a una roccia, le mani strette intorno alla gola di 3Jane. — Strano, so esattamente che aspetto hai — disse Molly. — L’ho visto dopo che Ashpool ha fatto altrettanto alla tua sorella clone. — Le sue mani erano dolci, quasi una carezza. Gli occhi di 3Jane erano sbarrati per il terrore e la libidine. Tremava per la paura e per il desiderio. Oltre il groviglio in caduta libera dei capelli di 3Jane, Case vide il proprio volto pallido, teso, con Maelcum dietro di lui, le mani brune sulle spalle del giubbotto di cuoio, per impedirgli di cadere sul tappeto con il disegno dei circuiti stampati.
— Lo faresti? — chiese 3Jane, con una voce che era quella di una bambina. — Sì… credo che lo faresti.
— Il codice — disse Molly. — Qual è il codice della testa?
Case si scollegò.
— Lo vuole — urlò Case. — Quella cagna lo vuole !
Aprì gli occhi alla gelida fissità color rubino del terminale, alla faccia di platino tempestata di perle e di lapislazzuli. Oltre quella, Molly e 3Jane si dimenavano in un abbraccio al rallentatore.
— Dacci quel merdoso codice — disse Case. — Tanto, se non lo farai, cosa cambierà? Che razza di cambiamento ci sarà mai per te? Farai la fine del vecchio. Butterai giù tutto e ricomincerai a costruire di nuovo! Ricostruirai le pareti, sempre più anguste… Non ho la minima idea, ma proprio nessuna, di cosa accadrà se dovesse essere Invernomuto a vincere, ma cambierà qualcosa! — Tremava, gli battevano i denti.
3Jane s’afflosciò, le mani di Molly ancora serrate intorno alla sua esile gola, i capelli scuri che galleggiavano alla deriva, aggrovigliati, un morbido amnio scuro.
— Il Palazzo Ducale di Mantova — disse — contiene una serie di stanze sempre più piccole che s’inseguono intorno ai grandi appartamenti, dietro le intelaiature meravigliosamente intagliate delle porte. Bisogna abbassarsi per entrare. In quelle stanzette abitano i nani di corte. — Mostrò un pallido sorriso. — Potrei aspirare a questo, immagino, ma in un certo senso la mia famiglia ha già realizzato una versione più grandiosa dello stesso progetto… — Adesso i suoi occhi erano calmi, remoti. Poi abbassò lo sguardo su Case. — Ecco la tua parola, ladro. — Lui si collegò.
Il Kuang scivolò fuori dalle nubi. Sotto, la città al neon. Dietro, una sfera d’oscurità che si rimpiccioliva.
— Dixie? Sei qui, amico? Mi senti, Dixie?
Era solo.
— Quello stronzo ti ha beccato — constatò.
Un istante di cecità mentre sfrecciava attraverso l’infinito orizzonte di dati.
— Devi odiare qualcuno, prima che questa faccenda sia finita — disse la voce di Finn. — Loro, me, non ha importanza.
— Dove si trova Dixie?
— È un po’ difficile spiegarlo, Case.
La sensazione della presenza di Finn lo circondava, odore di sigari cubani, fumo imprigionato in un tweed ammuffito, vecchie macchine abbandonate ai rituali minerali della ruggine.
— L’odio ti aiuterà a passare — riprese la voce. — Ci sono tanti piccoli grilletti nel cervello e tu devi soltanto farli scattare tutti. Adesso devi odiare. Il blocco che scherma i controlli implementati è sotto quelle torri che il Flatline ti ha fatto vedere, quando sei entrato. Lui non cercherà di fermarti.
— Neuromante — disse Case.
— Il suo nome non è qualcosa che io posso conoscere. Ma ormai ha rinunciato. È l’ice della T-A quello che deve preoccuparti. Non la facciata, ma i sistemi di virus interni. Il Kuang è completamente vulnerabile a certe cose che sono a piede libero là dentro.
— Odio — ripeté Case. — Chi devo odiare? Dimmelo tu.
— Chi ami? — gli chiese la voce di Finn.
Sferzò il programma facendogli compiere una curva, e si tuffò verso le torri azzurre.
Strane cose si stavano lanciando dalle guglie decorate che risplendevano di luce solare, forme luccicanti, simili a sanguisughe costituite da mutevoli piani di luce. Ce n’erano a centinaia, che si levavano turbinando, con movimenti casuali come fogli di carta soffiati dal vento lungo le strade alle prime luci dell’alba. — Sistemi pieni di buchi — disse la voce.
Entrò in picchiata, alimentato dall’odio per se stesso. Quando il programma Kuang incontrò il primo difensore, sparpagliando le foglie di luce, Case sentì la cosa simile allo squalo perdere una certa gradazione della sua sostanza, il tessuto delle informazioni che si stava allentando.
E poi, vecchia alchimia del cervello e della sua ampia riserva di sostanze chimiche, il suo odio gli scivolò tra le mani.
L’istante prima di guidare il pungiglione del Kuang attraverso la base della prima torre raggiunse un livello di destrezza che superava qualunque altra dote avesse mai conosciuto e immaginato prima. Si muoveva al di là dell’ego, al di là della personalità, al di là della coscienza, e il Kuang si muoveva con lui, evitando i suoi aggressori con un’antica danza, la danza di Hideo, la grazia concessa dall’interfaccia mente-corpo, in quel secondo, dalla chiarezza e dalla precisa unicità del suo desiderio di morte.
E un passo di quella danza era costituito dal tocco più leggero che si potesse immaginare sull’interruttore, quel tanto che bastava a cambiare…
…adesso
e la sua voce il grido di un uccello
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