E si trovò a guardare attraverso l’occhio buono di Molly, fissando una faccia sbiancata, una figura logora, che galleggiava rannicchiata in posizione vagamente fetale, con un deck da cyberspazio fra le cosce, una fascia di elettrodi d’argento sopra gli occhi chiusi e in ombra. Le guance incavate e solcate dalla barba scura di un giorno, il volto lucido per il sudore.
Stava guardando se stesso.
Molly aveva in mano la sua Fletcher. La gamba le pulsava a ogni battito del polso, ma a gravità zero riusciva ancora a manovrare. Maelcum galleggiava lì vicino, il braccio sottile di 3Jane stretto in una manona bruna.
Un nastro di fibra ottica si snodava elegante dall’Ono-Sendai fino a un quadrato che si apriva sul retro del terminale incrostato di perle.
Case sfiorò di nuovo l’interruttore.
— Il Kuang Grade Versione Undici alzerà il culo fra nove secondi, meno sette, sei, cinque…
Il Flatline li digitò in un’ascesa liscia come l’olio, la superficie ventrale dello squalo di cromo nero ridotta a un guizzo di oscurità della durata di un microsecondo.
— Quattro, tre…
Case ebbe la strana impressione di essere finito sul sedile del pilota di un piccolo aereo. All’improvviso davanti a lui una superficie piatta e scura s’illuminò in una perfetta riproduzione della tastiera del suo deck.
— Due, fagliela vedere…
Una caduta a capofitto attraverso pareti di verde smeraldo, di giada lattea, la sensazione d’una velocità superiore a qualunque altra cosa avesse conosciuto in precedenza nel cyberspazio… L’ice della Tessier-Ashpool crollò sotto l’attacco in profondità portato dal programma cinese, un’inquietante impressione di solida fluidità, come se i frammenti d’uno specchio infranto si stessero piegando e allungando mentre cadevano…
— Cristo — esclamò Case, sgomento, mentre il Kuang si torceva e cabrava sopra i campi privi d’orizzonte dei nuclei della Tessier-Ashpool, un interminabile paesaggio metropolitano al neon, una complessità che fendeva l’occhio, luminosa come un gioiello, tagliente come un rasoio.
— Ehi, quegli affari sono il palazzo della RCA. Conosci il vecchio palazzo della RCA? — disse il costrutto. Il programma Kuang si tuffò oltre le guglie luccicanti di una dozzina d’identiche torri di dati, ognuna una replica in neon azzurro d’un grattacielo di Manhattan.
— Hai mai visto una risoluzione così elevata? — chiese Case.
— No, ma io non sono mai penetrato in una IA.
— Questa cosa sa dove sta andando?
— Sarà meglio.
Stavano cadendo, perdendo quota, in un canyon di arcobaleni al neon.
— Dix…
Un braccio d’ombra si stava snodando dal tremolante pavimento là sotto, una ribollente massa di oscurità, informe, indistinta…
— Arriva gente — disse il Flatline, mentre Case toccava la rappresentazione del suo deck, con le dita che volavano automaticamente sulla tastiera. Il Kuang deviò, scatenando un accesso di nausea, poi invertì la direzione, scattando all’indietro con una violenta sferzata, infrangendo in quel modo l’illusione di un veicolo fisico.
Il cono d’ombra stava crescendo, si ampliava, oscurando la città di dati. Case li guidò direttamente in alto, sotto la conca priva di distanza dell’ice verde-giada.
Adesso la città dei nuclei era scomparsa, totalmente oscurata nel buio sotto di loro.
— Che cos’è?
— Il sistema di difesa d’una IA — spiegò il costrutto. — O parte di esso. Se è il tuo socio Invernomuto, non ha l’aria di essere molto amichevole.
— Affrontalo — intimò Case. — Tu sei più veloce.
— Ora la tua migliore di -fesa, ragazzo è una buona off- esa.
E il Flatline allineò il muso del pungiglione del Kuang con il centro della sottostante oscurità. E si tuffò.
L’input sensoriale di Case si deformò a causa della velocità. La sua bocca si riempì di un doloroso sapore di azzurro.
I suoi occhi erano uova di cristallo instabile, che vibravano secondo una frequenza il cui nome era la pioggia e il lontano fragore dei treni, dalla quale d’un tratto sbocciò una foresta ronzante di spine di vetro sottili come capelli. Le spine si scissero, si bisecarono, si scissero un’altra volta, crescendo a un ritmo esponenziale sotto la cupola dell’ice della Tessier-Ashpool.
Il suo palato si fessurò senza dolore, consentendo l’accesso a tante piccole radici che presero a sferzare intorno alla lingua, affamate del sapore dell’azzurro, per nutrire le foreste di cristallo dei suoi occhi, foreste che premevano contro la cupola verde, che premevano e venivano intralciate, e si diffondevano, crescendo verso il basso, riempiendo l’universo della T-A, fin dentro gli impotenti sobborghi in attesa della città che era la mente della Tessier-Ashpool S.A.
E ricordò un’antica storia, un re che metteva le monete su una scacchiera, raddoppiando la somma a ogni casella…
Esponenziale…
L’oscurità scese da ogni lato, una sfera di nero cantante, la pressione sui protesi nervi di cristallo dell’universo di dati in cui lui era quasi mutato…
E quando lui non fu nulla, compresso al centro di tutto quel buio, ci fu un punto dove il buio non poteva più esistere , e qualcosa si ruppe.
Il programma Kuang schizzò fuori da quella nube offuscata, la consapevolezza di Case suddivisa in tante perline di mercurio, in una parabola sopra una spiaggia interminabile del colore delle buie nubi argentate. La sua visione era a occhio di pesce, come se una singola retina rivestisse la superficie interna di un globo che conteneva tutte le cose, se tutte le cose si potevano contare.
E qui le cose potevano essere contate, una per una. Conosceva il numero dei granelli di sabbia nel costrutto della spiaggia (un numero codificato in un sistema matematico che non esisteva da nessun’altra parte al di fuori della mente che era Neuromante). Conosceva il numero di sacchetti gialli di generi alimentari che si trovavano nei contenitori dentro il bunker (quattrocentosette), conosceva il numero dei denti di ottone della metà sinistra della cerniera aperta della giacca incrostata di sale che Linda Lee indossava mentre procedeva con passo stanco lungo la spiaggia al calar del sole, facendo roteare nella mano un bastone di legno raccolto sulla sabbia (duecentodue).
Fece virare il Kuang sopra la spiaggia guidando il programma in un ampio cerchio, e vide la cosa nera simile a uno squalo attraverso gli occhi di lei, un silenzioso famelico fantasma che si stagliava contro i banchi minacciosi delle nuvole. Lei si ritrasse spaventata, lasciò cadere il bastone e si mise a correre. Conosceva il ritmo delle sue pulsazioni, la lunghezza dei suoi passi, secondo misurazioni che avrebbero soddisfatto i più rigorosi standard della geofisica.
— Ma non conosci i suoi pensieri — precisò il ragazzo, adesso accanto a lui nel cuore della cosa a forma di squalo. — Io non conosco i suoi pensieri. Ti sbagliavi, Case. Vivere qui significa vivere. Non c’è nessuna differenza.
Linda, in preda al panico, si lanciò alla cieca in mezzo alla risacca.
— Fermala — disse Case. — Si farà male.
— Non posso fermarla — replicò il ragazzo, con i suoi occhi grigi pacati, bellissimi.
— Hai gli occhi di Riviera.
Vi fu un lampeggiare di denti bianchi, grandi gengive rosa. — Ma non la sua follia. Perché per me sono belli. — Scrollò le spalle. — Non ho bisogno di una maschera per parlare con te. A differenza di mio fratello, io creo la mia personalità. La personalità è il mio medium.
Case li portò in alto, in una brusca impennata, lontano dalla spiaggia e dalla ragazza spaventata. — Perché me la butti fra le braccia, piccolo testa di cazzo che non sei altro? Prendendomi per il naso per uno schifosissimo numero di volte. Tu l’hai uccisa, eh? A Chiba.
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