Bruce Sterling - La matrice spezzata

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È considerata l'opera che, insieme a Neuromante (1984) di William Gibson, ha dato inizio alla stagione della narrativa Cyberpunk.
Definito da Sterling stesso come il favorito tra i suoi libri, “La matrice spezzata” racconta di un mondo in cui l'umanità è divisa tra i rivoluzionari Shaper, favorevoli a un'umanità biologica, in lotta contro gli aristocratici Mechanist (che vorrebbero imporre il dominio della macchina) per il definitivo controllo del genere umano. Il volume comprende un romanzo e cinque racconti pubblicati tra il 1982 e il 1984, ambientati nello stesso sfondo fanta-storico e che costituiscono una sorta di minisaga, quasi una summa dell'intenso universo sterlinghiano.
Nominato per il premio Nebula per miglior romanzo in 1985, premio BSFA in 1986.

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Nora rimase a fissare lo schermo, come pietrificata. Le traumatizzate dichiarazioni dei capi dei Mechanist: uomini distrutti, donne spaventate, spogliati delle loro routines e dei loro sistemi. L’armamentario dei piani e delle contingenze dei Mech era stato eliminato come la rogna, mostrando la carne viva della loro umanità. Parlottavano, lottavano per assumere il controllo, ognuno contraddicendo il precedente. Alcuni con dei sorrisi stretti stretti che pareva gli fossero stati cuciti addosso con un intervento chirurgico, altri con gli occhi velati dalle nebbie d’una stupefazione religiosa di seconda mano, gesticolando vagamente, i loro volti luminosi come quelli dei bambini.

E i decani del complesso dell’accademia militare dei Plasmatori: i volti lisci tipici della Sicurezza, accomodanti, trionfanti, ancora troppo compiaciuti per quel colpo stupefacente per far trasparire il sospetto che era innato in loro. E l’intellighenzia, abbacinata, che faceva spericolate congetture, la loro obiettività ridotta a brandelli.

Poi ne vide uno. No, ce n’erano di più. Una dozzina. Erano giganteschi. Le loro gambe, da sole, erano alte come uomini, enormi masse di muscoli nodosi, ossa e tendini sotto la pelle tesa, lucida fino ad apparire levigata artificialmente. Indossavano delle gonne, grani luccicanti infilati su fili. Il loro petto possente era nudo, con uno sterno così smisurato da parere la carena di una nave. Confrontate con le gambe simili a tronchi d’albero e le massicce code sporgenti, le loro braccia erano lunghe e sottili, con delle dita agili dalle punte rigonfie e pollici curiosamente incavati. La loro testa era immensa, grossa quanto il tronco d’un uomo, spezzata da un grande sorriso cavernoso pieno di denti tozzi, squadrati, grossi come pollici. Pareva che non avessero orecchi, e i loro bulbi oculari neri, grandi come pugni, erano schermati da scabre palpebre e da membrane nittitanti grigiastre. Frange costolate, iridescenti, drappeggiavano le loro teste.

C’era gente che stava parlando con loro, impugnando telecamere. Plasmatori. Pareva quasi che si tenessero rannicchiati per paura degli alieni; avevano la schiena curva, si spostavano servilmente dall’uno all’altro strascicando i piedi. Nora si rese conto che ciò era dovuto alla gravità. Gli alieni usavano una gravità molto più intensa.

Erano veri! Si muovevano con grazia massiccia e rilassata insieme. Alcuni di loro tenevano in mano un blocco per appunti. Altri parlavano con una lingua stretta simile a quella degli uccelli, lunga quanto un avambraccio.

Le loro dimensioni da sole bastavano a dominare l’incontro. Non c’era niente di formale o di teatrale nel loro modo di agire; neppure la solennità riusciva a nascondere la natura quintessenziale di quell’incontro. Gli alieni non erano spaventati e neppure molto colpiti. Non c’erano guasconate, iattanza, e neppure mistica. Badavano al sodo. Come gli esattori delle tasse.

Paolo piombò dentro all’improvviso, gli occhi spiritati, i lunghi capelli intrisi di sangue. — Presto! Mi sono alle spalle! — Gettò un’occhiata tutt’intorno. — Dammi il coperchio di quel pannello!

— È finita, Paolo!

— Non ancora! — Paolo afferrò a mezz’aria l’ampio coperchio della consolle. I fili gli penzolarono dietro come una scia. Paolo si catapultò attraverso la stanza e sbatté la consolle di traverso all’ingresso della galleria. Posta di piatto contro di essa, formava una rozza barricata. Paolo tirò fuori con uno scatto un tubo di resina epossidica dalla cintura e incollò il coperchio della consolle contro la pietra.

Su un lato era rimasto aperto un varco; Paolo tirò fuori la sua fionda e scagliò un proiettile in fondo al corridoio. Udirono, lontano, un ululato. Paolo incastrò il viso nel varco e lanciò in risposta una ululante risata.

— La televisione, Paolo! Notizie dal Consiglio! L’assedio è finito!

— L’ assedio? - fece Paolo, voltandosi a lanciarle un’occhiata. — Che cosa diavolo ha a che fare con noi?

— L’assedio, la guerra — spiegò Nora. — Non c’è mai stata nessuna guerra, è la nuova linea del partito. Ci sono stati soltanto degli… equivoci. Strettoie. — Paolo la ignorò, fissando la lontana estremità della galleria e preparando un altro colpo con la fionda. — Non siamo mai stati soldati. Nessuno di noi ha mai cercato di uccidere nessun altro. La razza umana è pacifica, Paolo. Siamo soltanto… buoni partner commerciali… Gli alieni sono qui, Paolo. Gli alieni.

— Oh, Dio — gemette Paolo. — Devo soltanto ucciderne altri due, ed è tutto, e ho già ferito un braccio alla donna. Prima aiutami ad ucciderli, e poi potrai raccontarmi tutto quello che vuoi. — Premette la spalla contro la barricata, aspettando che la colla epossidica si stabilizzasse.

Nora gridò attraverso uno dei fori degli strumenti della consolle, in direzione del buio: — Signor Presidente! Sono il diplomatico… voglio parlamentare!

Vi fu un attimo di silenzio, poi: — Pazza di una puttana! Vieni fuori e crepa!

— È finita, signor Presidente! L’assedio è stato tolto! Il sistema è in pace, ha capito? Gli alieni, signor Presidente. Sono arrivati gli alieni, sono qui già da giorni!

Il Presidente scoppiò in una risata. — Sicuro. Esci fuori, bimba. Prima manda fuori quel piccolo fottuto con la fionda. — Udì l’improvviso gemito della sega a mano.

Paolo la spinse da parte con un ringhio e scagliò un proiettile in fondo al corridoio. Udirono una mezza dozzina di clic secchi, quando il proiettile rimbalzò più volte laggiù. Il Presidente gracchiò trionfalmente: — Stiamo per mangiarvi — disse, in tono estremamente serio. — Mangeremo il vostro fegato. — Abbassò la voce. — Falli fuori, Segretario.

Nora balzò davanti a Paolo, afferrandolo con una mano, e urlò: — Abelard! Abelard, è vero! Lo giuro su tutto quello che c’è stato fra noi! Abelard, non sei stupido, lasciaci vivere, voglio vivere…

Paolo le serrò le mani sulla bocca e la tirò indietro. Lei si tenne aggrappata alla barricata, adesso saldamente incollata, guardando in fondo al corridoio. Là, una forma bianca stava venendo avanti fluttuando. Una tuta spaziale. Non una di quelle dei Mavrides, ma una di quelle rigonfie e corazzate della Red Consensus.

La fionda di Paolo era inutile contro la tuta. — Ci siamo — borbottò Paolo. — Le punte. — Lasciò Nora e tirò fuori una candela e una vescica piatta di liquido dall’interno della giubba. Avvolse la vescica intorno alla candela, legandola con un laccio della manica. Sollevò la bomba. — Adesso bruceranno.

Nora lanciò la sciarpa intorno al collo di Paolo. Gli piantò il ginocchio ancora sano sulla schiena e tirò con forza selvaggia. Paolo produsse un suono come quello d’una cornamusa rotta e si allontanò dall’ingresso con un calcio. Artigliò la sciarpa. Era forte. Era quello che aveva la fortuna dalla sua.

Nora tirò con maggiore forza. Paolo tirava con altrettanta energia. I suoi pugni erano talmente serrati intorno al tessuto grigio della cintura che il sangue colava fuori dalle lacerazioni a forma di mezzaluna incise sui palmi dalle sue stesse unghie.

Si udirono delle grida in fondo al corridoio. Delle grida e il rumore della sega portatile.

E adesso il nodo che non aveva mai lasciato le sue spalle si era diffuso nelle sue braccia, e Paolo stava tirando, contrastandola con muscoli che parevano modellati nel ferro. Non respirava, nell’improvviso silenzio che seguì. Il bordo ruvido della sciarpa era scomparso dentro il suo collo. Era morto. Ma tirava ancora.

Nora lasciò che le estremità della sciarpa scivolassero fuori dalle sue dita rattrappite. Paolo cominciò a ruotare lentamente in caduta libera, il volto annerito, le braccia serrate là dove si trovavano bloccate. Pareva che si stesse strangolando da sé.

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