— Vedrebbe cosa? Che siamo criminali?
— Nel passato si sarebbe trattato soltanto di pirati morti. La solita faccenda. Ma oggi, adesso, sarebbe uno scandalo. Qualcuno dovrebbe comunque venirci a cercare. Per assicurarsi che non succeda mai più.
— Rischieresti questa facciata di pace che stanno mostrando agli alieni? Soltanto per la vaga probabilità che qualcuno ci salvi? Sparare? Immagina quello che ci farebbero se dovessero arrivare!
— Che cosa mai? Ucciderci? Siamo già morti. Io voglio che viviamo.
— Come criminali? Disprezzati da tutti?
Nora sorrise amaramente. — Oh… non è niente di nuovo per me.
— No, Nora. Ci sono dei limiti.
Lei lo accarezzò. — Capisco.
Due notti più tardi si svegliò in preda al terrore. L’asteroide vibrava tutto. Nora non c’era. Dapprima pensò che fosse l’urto di un meteorite, un avvenimento raro ma terrificante. Tese l’orecchio per riuscire a sentire l’eventuale sibilo della fuoriuscita dell’aria, ma le gallerie erano ancora intatte. Quando vide il volto di Nora, si rese conto della verità. — Hai sparato con il cannone!
Nora era scossa. — Ho mollato la Consensus prima di colpirla. Sono uscita in superficie. C’è qualcosa di strano, lassù, Abelard. La plastica è colata fuori dell’anello di lancio, nello spazio.
— Non voglio ascoltare.
— Ho dovuto farlo. Per noi. Perdonami, tesoro. Giuro che non ti ingannerò mai più.
Lindsay rimuginò tra sé.
— Pensi che verranno?
— È una probabilità. Volevo una probabilità per noi. — Era distratta. — Tonnellate di plastica spremute fuori come il dentifricio. Come un verme gigantesco.
— Un incidente — disse Lindsay. — Dovremo dir loro che si è trattato di un incidente.
— Adesso distruggerò il cannone. — Nora lo guardò con aria colpevole.
— Quello che è fatto è fatto. — Sorrise tristemente e allungò la mano verso di lei. — Aspettiamo.
ESAIRS XII
17-7-’17
Da qualche parte nei suoi sogni, Lindsay udiva un insistente martellio. Come sempre, Nora si svegliò per prima e fu subito sul chi vive. — Rumore, Abelard.
Lindsay si svegliò con gran pena, con le palpebre appiccicate. — Cos’è? Una fuoriuscita?
Nora scivolò fuori dalle lenzuola, proiettandosi lontano dal suo fianco con un piede nudo. Accese le luci. — Alzati, tesoro. Qualunque cosa sia, l’affronteremo di petto.
Non era la maniera con cui Lindsay avrebbe preferito incontrare la morte, ma era disposto ad assecondarla. S’infilò calzoni e poncho muniti di lacci.
— Non c’è nessuna brezza — osservò Nora, mentre lui lottava per rifare un complicato nodo da riplasmatore. — Non si tratta di decompressione.
— Allora è una spedizione di salvataggio… i Mech!
Si affrettarono a raggiungere la camera di equilibrio attraverso le gallerie buie.
Uno dei soccorritori, doveva trattarsi di un tipo coraggioso, era riuscito a far passare la sua enorme mole attraverso la camera di equilibrio e ad entrare nella camera di carico. Si stava ripulendo con grande pignoleria le enormi dita, simili agli artigli di un uccello, della sua tuta spaziale, quando Lindsay sbirciò fuori dalla galleria di accesso, socchiudendo gli occhi e proteggendoseli con una mano.
L’alieno aveva un potente riflettore montato sul ponte del naso del cavernoso casco della sua tuta spaziale. La luce che scaturiva dal riflettore era vivida come quella di una fiamma ossidrica, un aspro azzurro elettrico fortemente colorato dall’ultravioletto. La tuta spaziale era bruna e grigia, punteggiata da prese per le più varie spine e costolata a fisarmonica intorno alle giunture.
Il raggio luminoso passò sopra di loro e Lindsay strizzò gli occhi, girando il viso dall’altra parte. — Mi potete chiamare Guardiamarina — disse l’alieno, in inglese commerciale.
Con grande cortesia si allineò sul loro asse verticale, allungandosi sopra di sé per spingersi con le dita lungo la parete.
Lindsay appoggiò la mano sull’avambraccio di Nora. — Io sono Abelard — disse. — Questa è Nora.
— Come state? Vogliamo discutere di questa proprietà. — L’alieno affondò la mano nella tasca laterale e tirò fuori un tampone di tessuto. Lo scosse, aprendolo con un rapido movimento da uccello, e divenne un televisore. L’alieno appoggiò lo schermo a ridosso della parete. Lindsay, guardando con attenzione, vide che il televisore non aveva linee di scansione. L’immagine era formata da milioni di minuscoli esagoni colorati.
L’immagine era quella di ESAIRS XII. Dal foro di uscita dell’anello di lancio usciva un tubo di schiuma di plastica lungo quasi mezzo chilometro. Sulla punta di quella spira simile a un verme c’era un rozzo bitorzolo. Lindsay si rese conto con un immediato e soffocato shock che si trattava della testa di pietra di Paolo, chiaramente incorniciata dentro il relitto simile a un fiore della gabbia di lancio. L’intera massa era stata incorporata senza nessuno sforzo nella fuoriuscita della plastica dall’impianto di produzione delle esche, poi era stata spremuta fuori dalla pressione dentro quel grande arco spiraleggiante.
— Vedo — disse Lindsay.
— Sei tu l’artista?
— Sì — disse Lindsay. Indicò lo schermo. — Ha notato il sottile effetto di quella sfumatura, dove il nostro ultimo colpo ha annerito la scultura?
— Abbiamo notato l’esplosione — disse l’alieno. — Un’insolita tecnica artistica.
— Noi siamo insoliti — annuì Lindsay. — Siamo unici.
— Sono d’accordo — replicò il guardiamarina, con cortesia. — Di rado vediamo un’opera su una simile scala. Accettate di trattarne l’acquisto?
Lindsay sorrise. — Parliamone.
PARTE SECONDA
Comunità Anarchia
A scatti il mondo entrò in una nuova era. Benignamente gli alieni avevano accettato una mistica semi-divina. Un fervore millenario spazzò il sistema. La distensione divenne di moda. La gente cominciò a parlare, per la prima volta, della Matrice Spezzata, di un sistema solare post-umano, diverso eppure unificato, in cui la tolleranza avrebbe dominato e ogni fazione avrebbe ricevuto una fetta della torta.
Gli alieni, da parte loro, si definivano gli “investitori”. Parevano disporre d’un illimitato potere. Erano antichi, talmente antichi da non ricordare nessuna tradizione precedente al volo stellare. Le loro poderose navi interstellari spaziavano su un vasto dominio economico, comprando e vendendo fra altre diciannove razze intelligenti. Era ovvio che possedevano tecnologie così potenti che, se avessero scelto di farlo, avrebbero potuto distruggere quel mondo angusto cento e più volte. L’umanità si rallegrava che gli alieni sembrassero così serenamente affabili. Le merci che offrivano erano quasi sempre innocue, molto spesso opere d’arte di enorme interesse accademico, e d’una utilità pratica sorprendentemente limitata.
Le ricchezze umane si riversarono nelle casse degli alieni. Minuscole ambasciate viaggiavano fino alle stelle a bordo delle navi degli investitori. Non riuscirono a combinare molto, e rimasero minuscole, poiché gli investitori facevano pagare tariffe astronomiche. Gli investitori riciclavano le ricchezze che spillavano all’economia umana. Comperavano azioni delle imprese umane. Con una singola novità tecnologica tirata fuori da una delle loro stive stracolme, gli alieni potevano rilanciare un’industria in crisi, portandone le quotazioni alle stelle. Le diverse fazioni si battevano sfrenatamente per assicurarsene i favori. E i mondi che non erano disposti a collaborare imparavano ben presto a loro spese con quanta facilità potevano venir superati ed essere resi obsoleti.
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